Lettera a Ryszard Krynicki
Ben poco rimarrà Ryszard ben poco davvero
della poesia di questo secolo folle sì Rilke Eliot
qualche altro insigne sciamano che seppe il segreto
di incantare parole d’una forma refrattaria al tempo senza cui
non c’è frase segna di memoria e la lingua è come sabbia
i nostri quaderni di scuola sinceramente tormentati
segnati da sudore lacrime sangue saranno
per l’eterna correttrice come il testo d’una canzone privo di note
nobilmente leale fin troppo evidente
con fretta eccessiva abbiamo creduto che la bellezza non salvi
che conduca sventati di sogno in sogno alla morte
nessuno di noi ha saputo destare la driade del pioppo
leggere la grafia delle nuvole
perciò l’unicorno non seguirà le nostre orme
non risusciteremo la nave nella baia il pavole la rosa
c’è rimasta la nudità e stiamo nudi in piedi
dal lato destro il migliore del trittico
Il Giudizio Universale
ci siamo caricati sulle magre spalle i problemi pubblici
la lotta contro tirannia menzogna le trascrizioni della sofferenza
con avversari però – ammettilo – miserabilmente meschini
valeva dunque la pena abbassare la sacra lingua
al bla-bla dalla tribuna alla nera schiuma dei giornali?
C’è così poca gioia – figlia degli dei – nei nostri versi Ryszard
troppo pochi luminosi crepuscoli specchi ghirlande slanci
null’altro che cupe salmodie balbettio di animule
urne di ceneri in un giardino arso
quanta forza occorre per sussurrare
nell’orto degli ulivi malgrado la sorte
verdetti della storia iniquità umana – tacita notte
Quanta forza d’animo occorre per far sprizzare
battendo alla cieca disperazione contro disperazione
una scintilla di luce una parola di conciliazione
perché eterno duri il cerchio del ballo sull’erba folta
il giorno benedetto della nascita di un bimbo e ogni inizio
i doni dell’aria della terra e del fuoco e dell’acqua
io non lo so – amico mio – perciò
ti mando nella notte questi enigmi di civetta
un cordiale abbraccio
l’inchino della mia ombra.
da: Zbignew Herbert, Rapporto dalla città assediata, Adelphi, Milano 1993, pp. 184-185, a cura di Pietro Marchesani
Questa ormai celebre lettera in forma di poesia è rivolta a un poeta più giovane dell’autore, appartenente alla generazione di poeti della cosidetta Nowa fala (“nuova ondata”), raggruppamento nato dopo il ’68, il quale gli aveva dedicato una poesia dal titolo Lingua, carne selvatica, pubblicata nel 1969 (una delle poesie a sua volta più celebri e importanti di Ryszard Krynicki), nella quale propugnava apertamente una forma di poesia come demistificazione (con evidente riferimento alle mistificazioni del regime comunista della Polonia di quegli anni). In questa poesia vi è altresì un’aperta citazione della lirica di Czeslaw Milosz Non di più ( nella quale scriveva”Se potessi descrivere le cortigiane veneziane/ Che stuzzicano con un vinco un pavone nel cortile/ E sgusciare dal tessuto di seta, dalla cintura/Perlata i loro seni appesantiti!”), nella quale molto probabilmente si fa riferimento al pavone che compare nel quadro di Vittore Carpaccio Due dame veneziane databile tra il 1490 e il 1495. L’inadeguatezza della poesia nei confronti della pittura, lamentata da Milosz in questa sua poesia, si rifà al detto ovidiano ut pictura poesis (“così come la pittura, anche la poesia”) e a tutto il dibattito sorto in epoca umanistica intorno al confronto tra queste due arti. In sostanza il pavone di Carpaccio passa da Milosz a Herbert per merito di Ovidio. Proprio per questo è giusto considerarli tra i massimi poeti del nostro tempo, perché in grado di tenere aperto un dialogo tra epoche e culture così lontane e differenti. Solo in questo modo la poesia engagé è in grado di superare i limiti del proprio tempo per assumere una dimensione realmente universale.
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