Ars poetica?

Ho sempre aspirato a una forma più capace,

che non fosse né troppo poesia né troppo prosa

e permettesse di comprendersi senza esporre nessuno,

né l’autore né il lettore, a sofferenze insigni.

Nell’essenza stessa della poesia c’è qualcosa di indecente:

sorge da noi qualcosa che non sapevamo ci fosse,

sbattiamo quindi gli occhi come se fosse balzata fuori una tigre,

ferma nella luce, sferzando la coda sui fianchi.

Perciò giustamente si dice che la poesia e dettata da un daimon,

benché sia esagerato sostenere che debba trattarsi d’un angelo.

É difficile comprendere da dove provenga quest’orgoglio dei poeti,

se sovente si vergognano che appaia la loro debolezza.

Quale uomo ragionevole vuole essere dominio dei demoni

che si comportano in lui come in casa propria, parlano in molteplici lingue,

e quasi non contenti di rubargli le labbra e la mano,

cercano per proprio comodo di cambiarne il destino?

Poiché ciò che è morboso viene oggi apprezzato,

qualcuno può pensare che io stia solo scherzando

o abbia trovato un altro modo ancora

per lodare l’arte servendomi dell’ironia.

C’è stato un tempo in cui si leggevano solo libri saggi

che ci aiutavano a sopportare il dolore e l’infelicità.

Ciò tuttavia non è lo stesso che sfogliare mille

opere provenienti direttamente da una clinica psichiatrica.

Eppure il mondo è diverso da come ci sembra

e noi siamo diversi dal nostro farneticare.

La gente corserva quindi una silenziosa onestà,

conquistando così la stima di parenti e vicini.

L’utilità della poesia sta nel ricordarci

quanto sia difficile restare la stessa persona,

perché la nostra casa è aperta, la porta senza chiave,

e ospiti invisibili entrano ed escono.

Ciò di cui parlo, non è, d’accordo, poesia.

Perché è lecito scrivere versi di rado e controvoglia,

spinti da una costrizione insopportabile e solo con la speranza

che spiriti buoni, non maligni, facciano di noi il loro strumento.

Berkeley, 1968

da: Czesla Milosz, Poesie, Adelphi, Milano 1983, pp. 118-119, a cura di Pietro Marchesani

Tra le cose che più mi colpisce di questa poesia è il punto interrogativo del titolo. Come se il poeta mettesse le mani avanti. Scrivere una poesia sulla poesia nel nostro tempo è a quanto pare un compito veramente sovrumano. Questa venne scritta durante gli anni in cui il poeta insegnava letterature slave all’università di Berkeley, in California dal 1960 al 1968. Furono proprio questi gli anni in cui nacque il Free spech movement, considerato il precursore dei movimenti studenteschi del ’68. Nella poesia se ne avverte una eco lontana. Erano anni in cui la contestazione sembrava mettere in discussione lo statuto del poeta e la ragion d’essere della poesia stessa (alla temperie culturale di quegli anni è da riferire il riferimento alle “opere provenienti direttamente dalla clinica psichiatrica” – lì dove si l’autore si riferiva probabilmente a una equivalenza tra arte e follia). L’impianto prosastico del componimento è dichiarato dallo stesso autore (“ciò di cui parlo, non è, d’accordo, poesia” ricorda). Ci troviamo, evidentemente, in una temperie culturale completamente differente. Tuttavia quanto afferma il poeta a me pare attualissimo. Se è vero che la poesia condivide con le altre forme di espressione artistica il grande mistero della creazione, sarebbe utile mantenere una netta distinzione tra questa e la follia, o almeno circoscrivere la poesia in una categoria differente dalla follia, intesa nella sua accezione di malattia psichiatrica, ma di difficile definizione: una forza che porta alla luce quanto è sconosciuto allo stesso autore, ma – ed è quanto lo stesso autore auspica – dal carattere benevolo.