Flesso appena in un inchino
si congeda dai lampioni
anche l’ultimo passante.
E là dove non siamo
la parola cede al sasso
il luogo torna quel che è


Sei tu che cammini dove vuoi
nel tempo tra l’ufficio e il bar,
lì dove la cartaccia posa
accanto al sasso.
Il verso è una finestra
azzurra di medina
e la vecchina là nel tram
è un arco teso
che scocca dentro gli occhi
e sfila già più lieve
d’ogni nostro ripensamento.
Il senso è una parola
e dice altro che non c’è

 

La prima poesia che apre la raccolta Marciapiede con vista, uscito nel 2016 nella Collezione di poesia della Einaudi rappresenta quasi una dichiarazione di poetica (“dichiarazione d’intenti” viene definita nel quarto di copertina) di un poeta non più esordiente (aveva già pubblicato nel 2011 la raccolta Pozzanghere sempre per i tipi Einaudi) e non più tanto giovane (classe 1962), ma dalle idee chiare. I protagonisti di questa raccolta di poesie sono nell’ordine: cartacce, gatti, lampioni, mendicanti, panchine, passanti e tombini, a cui l’autore ha dedicate una rispettiva sezione.

Nella tradizione culturale occidentale all’asse verticale viene assegnato il compito di identificare l’uomo dal punto di vista assiologico (in conseguenza di ciò nel nostro immaginario in cielo viene collocato il paradiso e nel sottosuolo l’inferno). Nelle sue poesie dell’ultima raccolta lei sembra preferire all’asse verticale una prospettiva “orizzontale” (a cui sembra alludere anche il titolo della sua ultima raccolta) attraverso la quale ricomporre la sua personale visione della realtà. È così?

E’ difficile distinguere cosa si trovi in alto e cosa in basso, dipende dalla nostra percezione delle cose. Il punto di vista di un essere umano è diverso rispetto a quello di un gatto o di una cavalletta. Anche restando nella prospettiva strettamente umana, la configurazione gerarchica delle cose cambia a seconda del soggetto e della prospettiva culturale. La considerazione di un monaco tibetano rispetto ai lombrichi è diverso rispetto a quanto previsto in altre culture. Queste differenze fanno capo, però, a un’esperienza universale: l’avventura di esistere. Per avere una percezione più estesa di sé e del mondo è utile notare cosa alberghi nella coda dell’occhio e guardare il mondo capovolto. 

Nella sua ultima raccolta lei celebra quei luoghi-non luoghi deputati al semplice passaggio, come i marciapiedi, dove le cartacce sono le uniche tracce di tale passaggio, mentre gatti e mendicanti sono gli unici “spettatori”, protagonisti di una visione della città letteralmente “straniata”, nella quale l’esistenza umana passa in secondo piano, assumendo il più delle volte contorni labili e incerti. Si riconosce in questa affermazione? 

Credo che gli esseri umani non siano consapevoli di gran parte della propria esistenza. Viviamo in relazione a obiettivi, paure, speranze- un cinema privato- e trascuriamo di fare esperienza del fatto stesso di esistere. Gli ambienti urbani e impersonali delle mie poesie alludono, anche, a una possibilità esperienziale svincolata dalle peripezie della mente. A un “essere qui” che ci accomuna coi sassi e coi tombini.

Il paesaggio urbano sembra essere l’ambientazione naturale di tutta la sua produzione poetica; di conseguenza la natura vi assume un ruolo rilevante, ma non da protagonista assoluta, dal momento che vi appare sempre delimitata all’interno della cornice della città, nella quale però la vita pullula anche nell’angolo più dimenticato. Che ruolo e che spazio ha la natura nella sua poesia? 

Sono più a mio agio rivoltando la domanda: che spazio abbiamo noi nella natura? Non possiamo essere altro che natura ma abbiamo qualcosa di speciale: la coscienza di sé. In questo siamo uno straordinario frutto di natura. 

La città nella quale le sue poesie sono ambientate non possiede chiari connotati geografici (mi pare che Roma venga nominata solo una volta nella sezione Lampioni); tuttavia vi aleggia il fantasma di una città come Roma e della sua pigra vita prevalentemente impiegatizia (“nel tempo tra l’ufficio e il bar” è il verso della poesia che apre la sezione Cartacce) che da sempre i suoi abitanti conducono. Qual è il suo rapporto con la città nella quale vive? 

Roma è, a mio parere, una buona metafora dell’umanità. Un luogo di bellezza e sordida trascuratezza, eleganza e sciatteria. Per questo è il mio ambiente ideale, quello che meglio riflette le spettacolari contraddizioni che contraddistinguono l’animo umano. 

Dal momento che anche io sono nato e vissuto per tutta la vita a Roma, leggendo le sue poesie ho avuto la sensazione di un poeta che finalmente sia riuscito a rappresentare questa città, in grado di entrare in una profonda sintonia con essa. I poeti spesso ne hanno celebrato i suoi splendidi monumenti, ma raramente ne hanno colto la sua essenza. Del resto è la città stessa, prigioniera di una insanabile contrasto tra gli splendori del passato e le miserie del presente, a rendere difficile il compito a chiunque voglia rappresentarla. È d’accordo? 

Per rappresentare Roma, credo sia utile abbassare lo sguardo sulle cartacce, sui tombini, poi alzarlo ai passanti distratti, ai palazzi decadenti, alle chiese barocche, alle edicole religiose scolorite. E’ divertente includere, nello stesso giro ozioso in motorino, l’eleganza degli edifici barocchi e la percezione scarnificata, quasi metafisica, delle periferie. E’ un modo per accorgersi che siamo vivi, contraddittori e, in ultimo, inaccessibili senza un’attenzione estetica disordinata.