La poesia

Non piace neanche a me: ci sono cose
assai più importanti di simili inezie.
Comunque, leggendola con tranquillo disprezzo,
uno scopre che in fin dei conti può esserci del genuino.
Mani capaci di afferrare, occhi capaci di dilatarsi,
capelli all’occorrenza capaci di rizzarsi,
sono cose importanti non in virtù delle interpretazioni pompose
che possono suggerirvi, ma perchè sono utili.
Quando diventano derivate a tal punto da non essere più
intellegibili siamo tutti d’accordo: non possiamo ammirare
ciò che non riusciamo a capire: il pipistrello
appeso a testa in giù o in cerca di qualcosa
da mangiare, elefanti che cozzano, un cavallo selvaggio
che si rotola, un lupo
sotto un albero, instancabile, il critico ottuso
che si contrae di scatto la pelle
come a un cavallo infastidito da un tafano,
il tifoso di base-ball, l’esperto di statistica-
e non ha senso neppure
svalutare “documenti commerciali e libri scolastici”.
Sono importanti anche questi. Però occorre distinguere:
se vengono utilizzati a sproposito
da poeti di secondo ordine, il risultato
non sarà mai poesia. Nè vi sarà poesia
finchè i poeti non sapranno essere
i “veristi dell’immaginazione”
sdegnando banalità e insolenza,
e non sottoporranno al vostro esame “giardini immaginari
con dentro rospi veri”.
Se, comunque, pretendete da un lato
il materiale della poesia allo stato grezzo
e dall’altro richiedete ciò che è genuino,
allora vuol dire che la poesia vi interessa.

Poetry

I, too, dislike it: there are things that are important beyond
      all this fiddle.
   Reading it, however, with a perfect contempt for it, one
      discovers that there is in
   it after all, a place for the genuine.
      Hands that can grasp, eyes
      that can dilate, hair that can rise
         if it must, these things are important not because a

high-sounding interpretation can be put upon them but because
      they are
   useful; when they become so derivative as to become
      unintelligible, the
   same thing may be said for all of us—that we
      do not admire what
      we cannot understand. The bat,
         holding on upside down or in quest of something to

eat, elephants pushing, a wild horse taking a roll, a tireless
      wolf under
   a tree, the immovable critic twinkling his skin like a horse
      that feels a flea, the base-
   ball fan, the statistician—case after case
      could be cited did
      one wish it; nor is it valid
         to discriminate against “business documents and

school-books”; all these phenomena are important. One must
      make a distinction
   however: when dragged into prominence by half poets,
      the result is not poetry,
   nor till the autocrats among us can be
     “literalists of
      the imagination”—above
         insolence and triviality and can present

for inspection, imaginary gardens with real toads in them,
      shall we have
   it. In the meantime, if you demand on the one hand, in defiance
       of their opinion—
   the raw material of poetry in
      all its rawness, and
      that which is on the other hand,
         genuine, then you are interested in poetry.

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Figura singolare ed eccentrica, la poetessa statunitense Marianne Moore (1887-1972), è stata una dei punti di riferimento della scena letteraria del suo paese per quasi un secolo. T. S. Eliot la definì: “Uno dei pochi poeti che aveva fatto del bene alla lingua”. Anche Pound fu uno dei suoi estimatori fin dal suo esordio, avvenuto nel 1915, quando iniziò a pubblicare su riviste di Londra, Chicago e New York. Sempre T: S. Eliot, nella prefazione a Selected poems parlò della sua “capacità di suscitare percezioni visive, con qualcosa che somiglia al fascino di un potente microscopio”. I suoi studi universitari in biologia e istologia al prestigioso collegio femminile Bryn Mawr in Pennsylvania non sono estranei a questa similitudine. Caratteristico della sua poesia è il “ragionare erudito” condotto con meticolosità scientifica nel quale si intrecciano intelletto, parole, immagini e humor intonate con una certa femminile leggerezza e un piglio tipicamente “americano”. Originaria del “midwest” (nacque a Kirkwood, nel Missouri), nel 1918 si trasferì a New York, nel Greenwich Village. Ebbe e così  occasione di entrare in contatto con le avanguardie newyorkesi, e con poeti del calibro di Wallace Stevens e Williams Carlos Williams. Quando, nel 1929, a quarantadue anni, si trasferì a Brooklyn, era una poetessa affermata e indipendente, che poteva dedicarsi esclusivamente alla scrittura. La pubblicazione dei Selected poems nel 1935, con la prefazione di T. S. Eliot, segnò la consacrazione definitiva.  Era solita recarsi a incontri pubblici, frequentare partite di baseball o incontri di pugilato (fu una grande ammiratrice del pugile Muhammad Alì) con un suo tipico abbigliamento: un cappello a tricorno e un mantello nero. A settant’anni decise di prendere la patente. Dimostrò di saper padroneggiare perfettamente sia complessi schemi metrici che il verso libero, nel quale scrisse, tra gli altri, anche il componimento che abbiamo riportato, uno dei suoi più celebri, con la memorabile definizione dei poeti come “i veristi dell’immaginazione”.