Un canto d’amore
Da quando non ci sei,
è oscura la città.
Io raccolgo le ombre delle palme
sotto cui camminasti.
Sempre devo cantare a bocca chiusa
la melodia che pende sorridendo dai rami.
M’ami di nuovo –
A chi dire il mio incanto?
A un’orfana o a un nuziale convitato,
che ode in eco la felicità.
So sempre
quando tu pensi a me –
bimbo mi si fa il cuore
e grida.
A ogni porta di strada
mi fermo e sogno;
aiuto il sole a dipingere
la tua bellezza a ogni muro di casa.
Ma all’immagine tua
mi faccio scarna.
Mi stringo attorno a slanciate colonne,
finché vacillano,
dappertutto il creato,
i fiori del nostro sangue.
Ci immergiamo nel muschio sacro che
vien dalla lana degli agnelli d’oro,
Se sulla lontananza
che ci divide
Una tigre tendesse il suo corpo,
come a vicina stella!
Presto
sul mio viso è il tuo fiato.
(trad. di Maura del Serra, in L’altro sguardo. Antologia delle poetesse del ‘900, Mondadori, 1996 Milano, pp. 27-28)
Else Lasker Schüler (per l’anagrafe Elisabeth Schüler), ultima di sei fratelli, nacque ad Elberfeld, in Westfalia, nel 1869 dal banchiere Aaron Schüler e da Jeanette Kissing, che fu una delle figure centrali nella sua poesia. Fu una bambina prodigio (a quattro anni sapeva già leggere e scrivere), frequentò le scuole della sua città fino al liceo. Nel 1890 perse la madre e, nel 1894, l’amato fratello Paul. Quello stesso anno sposò il medico Jonathan Berthold Lasker. L’anno seguente, nel 1895, la coppia si trasferì a Berlino. Nel 1899 nacque il figlio Paul ma nel 1903 i coniugi divorziarono. Del primo marito le rimase il cognome, che portò per il resto della vita.
Nel 1902 pubblicò la sua prima raccolta di poesie, Styx (“Stige”), nelle quali è più evidente l’influsso simbolista. Al 1903 risale il secondo matrimonio con Georg Lewin (dal quale si separò nel 1910) che la incoraggiò a scrivere, permettendole di pubblicare sulla rivista “Der Sturm”, da lui fondata (nel 1905 aveva pubblicato la raccolta Der siebente tag, “Il settimo giorno”). Al 1906 risale l’importante incontro con il poeta-vagabondo Peter Hille, a cui quello stesso anno la poetessa dedicò un libro di prose: Das Peter Hille buch (“Il libro di Peter Hille”). Fu proprio quet’ultimo a introdurla nell’ambiente esoterico e misticheggiante della colonia artistica dei fratelli Hart.
Dopo la fine del secondo matrimonio la sua vita cambiò in modo radicale: cominciò a frequentare gli artisti e a condurre una vita bohémiene. Era solita animare con la sua esuberanza e fervore le serate letterarie al Café Westens di Berlino e tanti artisti del tempo, riconoscendo il valore della sua poesia, la aiutarono a sostentarsi. Visse sempre tenendo fede ai suoi principi libertari, arrivando perfino a dormire sulle panchine.
Nel 1911, con la pubblicazione di Meine wunder (“i miei prodigi”) divenne uno dei principali esponenti del movimento espressionista. L’anno seguente incontrò Gottfried Benn, col quale ebbe una tormentata relazione (a lui la poetessa dedicò alcune intense poesie d’amore, nel loro genere tra le più belle del secolo scorso, come testimonia quella testé riportata).
Con la successiva raccolta, Hebräische Balladen ( “ballate ebraiche”, del 1913), considerata il suo capolavoro, il suo stile virò verso una forma più definita dal punto di vista formale (dalla prosa salmodiante in coppia di versetti non rimati, caratteristica dei suoi primi componimenti, si passa a una terzina libera, ma caratterizzata da numerose rime e assonanze). Già dal titolo della raccolta è evidente il richiamo alle sue radici culturali. Vi ricorrono infatti elementi della cultura ebraica, che la poetessa seppe rielaborare, in modo del tutto originale.
Nel 1919 viene messo in scena a Berlino il suo testo teatrale Die wupper, un dramma sociale che appartiene alla stagione del teatro espressionista. Nel 1927 la morte del figlio Paul di tubercolosi le provocò una grave crisi. Nel 1932 vinse il premo Kleist, ma l’anno seguente, a causa di ripetute minacce da parte dei nazisti e di una aggressione per la strada fu costretta a emigrare a Ginevra (la sua piéce teatrale del 1933 Artur Aronymus tratta apertamente e lucidamente della montante persecuzione antisemita). Nel 1934 si recò per la prima volta in Palestina, dove tornò nel 1937 e nel 1939, e da dove questa volta non poté però rientrare in Europa per via della guerra. Vi pubblicò la sua ultima raccolta di poesie, Mein blaues Klavier (“il mio pianoforte azzurro”, del 1943), caratterizzata necessariamente da accenti cupi e pessimistici. Nel gennaio del 1945 morì in seguito ad un malessere di origine cardiaca. Fu sepolta a Gerusalemme, dove tuttora si trovano le sue spoglie.
Fin dagli esordi seppe catalizzare l’attenzione su di sé: i suoi lirismi spalancavano orizzonti inediti, inesplorati. La sua è una poesia che vive di elementi stilistici apparentemente antitetici, un’oscillazione continua tra lirismi ed emozioni celebrate con veemenza, tra i poli opposti della fragilità e della forza. Legato alle sue radici ebraiche, così come alla temperie culturale della Berlino di quegli anni, è quel suo caratteristico “esotismo esoterico”. La valenza mitopoietica della sua poesia, legata alle sue radici culturali ebraiche, che assume una rilevante importanza nella sua produzione poetica della maturità, se da una parte magari ci ricorda la pittura di Marc Chagall, dall’altra risulta impregnata da quella teosofia gnostico-cabalistica così caratteristica, peculiare di quell’irripetibile stagione artistica.
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