Paesaggio con caduta di Icaro
Secondo Brueghel
Icaro cadde
a primavera
un contadino arava
il suo campo
la magnificenza
della stagione era
desta e fremeva
accanto
alla riva del mare
concentrato
su se stesso
sudando sotto al sole
che scioglieva
la cera delle ali
insignificante
al largo della costa
si vedeva
uno spruzzo appena
era
Icaro che annegava
(da William Carlos Williams, Pictures from Brueghel and Other Poems, 1962, traduzione di Abele Longo)
Diritti e doveri
Un tempo quando non so
un tempo pensavo di avere un diritto un dovere
gridare contro l’aratore
guarda guarda ascolta testone
Icaro cade
Icaro annega il figlio del sogno
lascia l’aratro
lascia la terra
apri gli occhi
là Icaro
annega
oppure quel pastore
che volge le spalle al dramma
alle ali al sole al volo
alla caduta
dicevo cechi
Ma ora quando ora non so
so che l’aratore deve arare la terra
il pastore custodire le greggi
l’avventura di Icaro non è la loro avventura
così deve finire
E non c’è nulla in questo
di sconvolgente
che un bel veliero continui a navigare
verso il porto di destinazione
1962
(da: Tadeusz Różewicz, Racconto didattico, trad. di Carlo Verdiani)
Il celebre dipinto di Peter Brueghel La caduta di Icaro, datato approssimativamente al 1558, ha ispirato più di un poeta nel XX secolo. Cito queste due poesie, tra le più celebri, anche per una singolare coincidenza: sono uscite tutte e due nello stesso anno, il 1962. La prima la scrisse un anziano poeta statunitense (era nato nel 1883 nel New Jersey da una famiglia di immigrati portoricani) un anno prima di morire. La seconda un poeta polacco con quasi la metà degli anni del collega (nacque nel 1921 a Radomsko, cittadina non lontana da Czestochowa). Cominciamo quindi dal più anziano: William Carlos Williams seppe conciliare l’attività di scrittore a quella di medico, che esercitò per tutta la vita (fu pediatra e i suoi pazienti non seppero mai della sua carriera letteraria) e pubblicò la sua prima raccolta di poesia, Poems, nel 1909. Fu, insieme a Ezra Pound, suo caro amico, un esponente di spicco dell’imagismo, una corrente che promuoveva, in contrasto con il simbolismo e il tardo romanticismo, un linguaggio poetico conciso e chiaro, basato sulla precisione e l’immediatezza. Dal punto di vista formale, i poeti di questo raggruppamento introdussero il verso libero, che usarono insieme a forme metriche originali. Ebbe modo di viaggiare e soggiornare in Europa. Nel 1915 si avvicinò al gruppo di artisti newyorkesi chiamato “The others” di cui facevano parte anche Marcel Duchamp, Man Ray, Wallace Stevens e Marianne Moore. Fu profondamente colpito e influenzato dalla pubblicazione de La terra desolata di T. S. Eliot nel 1922.
Il suo giovane collega polacco era nato da un anno. La sua vita venne profondamente segnata dall’invasione del ’39 e dai lunghi anni di occupazione nazista. tra il 1943 e il 1944 prese parte alla resistenza nelle file dell’Armja Krajowa (suo fratello maggiore venne fucilato dai nazisti nel 1944). Dopo la liberazione si trasferì a Cracovia, dove studiò storia dell’arte e si avvicinò agli ambienti della “Neoawangarda krakowska”, gruppo informale di artisti di cui faceva parte anche Andrzej Wajda e Tadeusz Kantor. Il suo debutto risale al 1947 con il volume Niepokój (“inquietudine”) a cui seguì, nel 1948, la raccolta Czerwona rękawiczka (“il guanto rosso”). Le sue poesie non passarono inosservate anche grazie alle scelte stilistiche estreme dell’autore, che segnarono anche tutta la sua produzione poetica seguente: abolizione della metrica e della metafora, uso delle lettere maiuscole e dei paragrafi del tutto libero e arbitrario (sotto questo punto di vista lo stile dei due poeti avevano qualcosa in comune: il linguaggio diretto, caustico, essenziale)
Nel 1949 vennero ufficialmente proclamati anche in Polonia i principi del “realismo socialista”. Anche come reazione alle critiche che gli rivolsero i più zelanti esegeti della poetica “ufficiale”, nel 1950, dopo aver trascorso un anno in Ungheria, si trasferì a Gliwice, cittadina nell’Alta Slesia.
Nei confronti delle improvvise aperture nella vita culturale determinate dai cambiamenti del 1956 (il cosiddetto “disgelo”) Różewicz fu piuttosto diffidente, preferendo rimanere appartato a Gliwice. La pubblicazione di Formy (“forme”), del 1958, rappresenta sia una rottura nei confronti con le esperienze generazionali sia una apertura verso nuove ispirazioni estetiche riconducibili alle istanze delle neoavanguardie. La sua poesia in questi anni si andava facendo più rarefatta, astratta, libera da qualsiasi dettame socio-politico. A questa fase appartiene il poema Opowiadanie didaktyczne (trad. it. “Racconto didattico”) del 1962, pubblicato nell’anno seguente all’interno della raccolta Nic w płaszczu Prospera (trad. it. “Niente nel mantello di Prospero”), dedicato a Mieczysław Porębski, storico dell’arte coetaneo del poeta. La parte centrale dell’opera contiene riflessioni e impressioni tratte dalla visita alla XXX Biennale di Venezia (particolare attenzione è dedicata alla figura di Alberto Burri, del quale il poeta seppe cogliere e apprezzare la poetica). La citata riflessione sul quadro di Brueghel chiude il poema e rappresenta quindi il punto fondamentale del poema nel quale l’autore prende le distanze dalla concezione dell’artista engagé, a cui in precedenza si sentiva in qualche modo legato. Obiettivo della polemica, anche se sottinteso, è la poetica del realismo socialista.
Sono sorprendenti le analogie tra le due poesie: due poeti che appartenevano a due paesi così lontani, due contesti culturalmente quasi antitetici, due generazioni diverse, si trovano a condividere nello stesso momento le stesse impressioni. Evidentemente avevano in comune qualcosa, oltre all’estrema parsimonia dei mezzi espressivi e all’elocuzione poetica molto diretta, essenziale e chiara. Li accomunava infatti anche un radicale scetticismo nei confronti di qualsiasi fede religiosa o prospettiva di vita ultraterrena. L’immagine di Brueghel, la beffarda e originalissima rappresentazione di Icaro, del quale sono visibili solo i piedi, offrì loro l’occasione per riaffermare tutto il loro scetticismo nei confronti di una visione “epica” della condizione umana.
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