Eigentlich

Ciò che è sempre mio è addosso a quelli che mi siedono davanti, dentro vestiti fatti come i miei, nei gesti di questo secolo, nel mio linguaggio. I vagoni si fermano tra Bologna e Il Policlinico. Io vi fronteggio pensando cose casuali, pezzi di infanzia, significanti puri; voi potete guardarmi mentre nulla mi appartiene. Eppure ciò che penso non uscirà da questa faccia, la mia vita impropria sarà mia per sempre. I New Order, nella cuffia, mimano un’adolescenza, quando le porte si aprono entra un odore di gomma e di freni. Sono quello che vedete.

Guido Mazzoni, alla sua terza raccolta di poesia, in La pura superficie, uscita nel 2017 per i tipi della Donzelli, nel quadro di una sua personale poetica dell’anti-poesia, tenta di ricomprendere all’interno di un ipotetico campo letterario le più disparate ed estreme esperienze: dal video dell’esecuzione di sedici soldati siriani da parte dell’ISIS, alla pornografia, alla narrazione quasi cronachistica dei fatti di Genova, fino alle citazioni di alcune poesie di Wallace Stevens. Ci troviamo in un orizzonte nel quale i miti della poesia sono già da tempo tramontati (per questo l’autore non si preoccupa di decostruire alcunché), nel quale la quotidianità si offre in tutto il suo insignificante spettacolo. Si possono intuire solo labili tracce di esperienze analitiche, forse l’ultimo rifugio concesso alle peregrinazioni dell’io (i materiali di risulta di tali esperienze compaiono qui e là nella raccolta) oppure frammenti di senso, frasi o espressioni tratte dall’esperienza di saggista. Ma questi “pezzi di vita” non sembrano in grado, forse per volontà dell’autore stesso, di comporre un’immagine, una mitologia, una narrazione unitaria. Tuttavia con Terzo ciclo, la poesia che chiude la raccolta nella quale si intravede la scena di un figlio che assiste un padre morente all’ospedale. Appare quindi un filo che potrebbe ricollegare le esperienze narrate in tutti i testi della raccolta. Così come accade in alcuni testi delle canzoni di Battiato, nelle quali la frase che chiude il ritornello (mi viene in mente l’arcinoto “centro di gravità permanente”) dà senso all’elenco che lo precedeva.

La sensazione che ho avuto leggendo la sua ultima raccolta è che si tratti di una sorta di “indagine sulle ultime cose della vita” legata a quello che nella vulgata psicoanalitica viene definito “elaborazione di un lutto”. È plausibile?

La pura superficie è un’indagine sulle cose ultime a partire dall’esperienza quotidiana, cioè di superficie, e il lutto da elaborare non è solo quello della poesia che chiude il libro. Più che un evento si tratta di un’atmosfera – un’atmosfera malinconica. La psicoanalisi interpreta la malinconia come un dolore per un vuoto generico, come un lutto senza oggetto. Questa non è la sola tonalità della Pura superficie. Ce ne sono altre, e forse mi sfuggono. Quando mi capita di leggere in pubblico, per esempio, mi accorgo che nel libro c’è una dose di rabbia, di violenza che non avevo percepito mentre scrivevo. Non mi dispiace che sia così.

Nella sua Prefazione il poeta polacco Czesław Miłosz nel 1945 scriveva: “Cos’è la poesia che non salva/ I popoli né le persone/ Una complicità di menzogne ufficiali,/ una cantilena di ubriachi, a cui fra un attimo verrà tagliata la gola/ Una lettura per signorinette”. Si potrebbe idealmente continuare l’elenco unendo quando scrive nella poesia Quattro superfici “Le opinioni su ciò che ignoriamo, i discorsi/ che escono dai cellulari e entrano nei vagoni/ in mezzo a tutti: i figli, un’infezione all’unghia, la Juventus”?

Non credo che il passo di Prefazione e il passo di Quattro superfici dicano la stessa cosa. Per esempio non separerei la poesia dalla letteratura attribuendo alla prima una qualità speciale, un privilegio. La poesia è solo un genere letterario, per giunta in crisi; l’aura che millenni di storia culturale le hanno appiccicato addosso non significa più nulla. La poesia non salva e non ha mai salvato nessuno, forse anche perché non capisco bene che cosa significhi salvarsi. Anche la letteratura non ha mai salvato nessuno; tutt’al più, nelle sue opere migliori, è stata uno sforzo per mentire di meno. Mentre la vita sociale si fonda necessariamente su negoziati, compromessi, menzogne che prendiamo per buone in modo da convivere senza farci troppo del male, la letteratura è uno dei pochi territori nei quali si può dire la verità portandola in pubblico. Questa verità nasce comunque da una formazione di compromesso, come tutto ciò che implica la presenza degli altri, ma in questo caso lo scopo del compromesso è conoscitivo, non pratico-morale. La letteratura, quando è buona, cerca di rendere universale un sistema di idiosincrasie particolari, e di non creare un apparato di discorso reticente, attenuato, moralista per favorire la convivenza. La buona letteratura è radicalmente antisociale.

Quello che, anche a livello personale, ammiro è la sua capacità di “mettersi a nudo”. Le sue poesie non solo raccontano un vissuto, ma lo rappresentano nel suo lato più intimo e segreto. Ciò che più sembra interessarla non sono tanto le parole, quanto i silenzi tra le persone. C’è una bella poesia della poetessa russa Anna Achmatova che fa “C’è nel contatto umano un limite fatale,/ non lo varca né amore né passione,/ pur se in muto spavento si fondono le labbra/ e il cuore si dilacera d’amore.” Secondo lei la poesia è in grado di varcare quella soglia di cui parla la poetessa russa o deve limitarsi a prendere atto di tale impossibilità?

A me interessa molto l’esperienza del confine e il primo dei confini che la coscienza incontra è quello che separa la vita interna dalla vita esterna. Chi dice io vive immerso nei propri psichismi (pensieri, passioni, somatismi), ma non può accedere alla vita interna altrui. Può farlo indirettamente, ascoltando quello che gli altri dicono e interpretando i segni che emettono, ma quello che finisce per sapere di loro è misero e opaco in rapporto a quello che sa di sé. C’è una soglia, un passaggio di stato, una frontiera ontologica, letteralmente; appare ogni volta che vediamo un essere vivente ed è invalicabile. Per chi dice io, gli altri sono sempre esseri di superficie: sono quelli che hanno un corpo visibile e una psiche nascosta, mentre l’io, chi dice io vive circondato di psichismi e ha un corpo che quasi sempre gli rimane invisibile. Il fastidio che proviamo guardando le nostre fotografie nasce dalla perdita di un privilegio ontologico, dalla scoperta di essere una cosa fra le cose, nonché dalla scoperta che la nostra immagine esce fuori di noi come qualcosa che non possiamo controllare, né ritirare dopo averla emessa. Di questo parlano due testi del libro, La pura superficie e Le immagini fuori di noi, ed è questo il primo significato del concetto di superficie.

La sua prosa Eigentlich è l’unica nella quale è chiaramente percepibile l’ambientazione romana. Tuttavia ultimamente lei ha dichiarato che tutta la sua ultima raccolta è in qualche modo ambientata a Roma. Filippo Strumia in una sua recente intervista esclusiva rilasciata per questo blog definiva Roma “Una buona metafora dell’umanità. Un luogo di bellezza e sordida trascuratezza, eleganza e sciatteria. Per questo è il mio ambiente ideale, quello che meglio riflette le spettacolari contraddizioni che contraddistinguono l’animo umano” e aggiungeva: “Per rappresentare Roma, credo sia utile abbassare lo sguardo sulle cartacce, sui tombini, poi alzarlo ai passanti distratti, ai palazzi decadenti, alle chiese barocche, alle edicole religiose scolorite.  E’ un modo per accorgersi che siamo vivi, contraddittori e, in ultimo, inaccessibili senza un’attenzione estetica disordinata.”. Concorda con questa affermazione? In che misura è possibile affermare che il “caos romano” sia stato un po’ “rumore di fondo” (o la colonna sonora, se preferisce) di tutta la raccolta?

Roma è stata molto importante per la scrittura di La pura superficie. Mi ci sono trasferito definitivamente all’inizio del 2014, la maggior parte dei testi è nata qui. È una città che mi fa riflettere molto: se dovessimo parlarne seriamente non basterebbe un libro. Ciò che dirò è approssimativo.

Roma è la capitale di una potenza economica occidentale ma non ha i tratti delle grandi capitali europee. È piuttosto un ibrido fra una città europea moderna e una città del Sud del mondo; è premoderna e postmoderna senza mai essere stata davvero moderna, avendo anzi intimamente rifiutato e sotterraneamente odiato ogni forma di modernità. La modernità cui Roma resiste è quella del disciplinamento razionale e borghese: servizi pubblici efficienti, gestione dei flussi, controllo dello spazio, addomesticamento di quella tensione fra interessi conflittuali e individui diversi che è tipica dell’ambiente urbano. Si tratta di un addomesticamento tecnico e morale, avviene con i dispositivi che assicurano ordine ai flussi (uno fra tutti la metropolitana), ma anche con le maniere della classe che nelle grandi capitali occidentali è egemone, la borghesia. A Roma i conflitti che altre città attenuano, nascono o spostano nei quartieri periferici si vedono ovunque. Nell’estate del 2015 i profughi si erano accampati a migliaia davanti alla stazione Tiburtina e sotto le mura del Verano, ci si passava in mezzo scendendo dal treno o dall’autobus; oggi in viale di Porta Tiburtina, a cinquanta metri da casa mia, i senzatetto costruiscono ripari sotto le mura che l’imperatore Aureliano fece edificare per difendere la città dalle prime invasioni barbariche. Si comportano come le altre ondate di senzatetto che hanno vissuto a Roma nel corso dei secoli, usano le costruzioni antiche come parete di sostegno per le baracche; oggi ci appoggiano i cartoni e i teli impermeabili comprati da Decathlon che probabilmente trovano alla Caritas di via Marsala. Mi colpisce molto la parte esterna di Piazzale Tiburtino da cui passo sempre per andare a prendere la metro a Piazza Vittorio. Da un lato la parte iniziale della Stazione Termini, capolavoro dell’architettura razionalista italiana che mi sta simpatico anche perché è stato progettato da un mio omonimo (Angiolo Mazzoni) e grande opera pubblica costruita da una dittatura, sotto la quale passa il tunnel pieno di graffiti e gas di scarico che porta all’Esquilino; dall’altro le mura aureliane. In mezzo uno spazio che per metà è uno svincolo e per metà è un parcheggio disordinato, una terra di nessuno melmosa o polverosa a seconda delle stagioni: immondizia, stracci, scritte, bottiglie di plastica, carta da imballaggi, fanalini rotti, vetri. (A Roma si incontrano molte terre di nessuno e moltissimi detriti; uno dei passi più belli di uno dei libri più belli mai scritti a partire da Roma, La vita in tempo di pace di Francesco Pecoraro, descrive l’«eterno cesso dismesso» che campeggia nei terreni abbandonati o ai lati delle strade). Addossata alle mura sorge un’edicola che è stata chiusa un anno fa dalla questura: in alto porta ancora la scritta, parzialmente lesionata, «Leggete l’Unità». È il segno di un’altra orbita, la traccia del secolo in cui San Lorenzo era un quartiere rosso abitato da operai, ferrovieri e piccoli artigiani, nato intorno ai caseggiati popolari che erano stati costruiti per dare un’abitazione decente alle famiglie dei lavoratori di fine Ottocento e inizio Novecento. (Il quartiere vota ancora a sinistra, Potere al Popolo ha festeggiato qui il suo uno-virgola-qualcosa, ma non si sa per quanto tutto questo continuerà, e soprattutto non si sa più che cosa la parola ‘sinistra’ significhi, o non lo si sa con la sicurezza con cui lo si sapeva nell’epoca cui appartiene la scritta «Leggete l’Unità»). Usando come appoggio la saracinesca dell’edicola e le mura, i senzatetto hanno costruito una baracca piuttosto solida, migliore di quelle fatte in viale di Porta Tiburtina, perché ha un lato non-precario in più, e ci abitano. Oltre il tunnel si apre un altro luogo allegorico all’incrocio fra via Tiburtina e via Giolitti, là dove la torre dell’acqua e la centrale termoelettrica della Stazione, bellissime, sovrastano la Chiesa di Santa Bibiana ridisegnata da Bernini e le rotaie del tram che va verso le periferie povere. Cento metri più a sud, incastonato nel recinto della Stazione, c’è il Tempio di Minerva Medica; più avanti c’è l’Esquilino, un quartiere costruito dai piemontesi con dimensioni adatte alla grande borghesia dei funzionari, e oggi abitato da cinesi, bengalesi, popolo autoctono e un po’ di ceto medio culturale. Fra via Cairoli e via Principe Amedeo, in un ottanta metri ci sono un centro islamico (che il venerdì diventa moschea), un centro massaggi cinese, alcuni alberghi a una stella posti sotto terra negli scantinati, due ristoranti indiani, uno dei quali molto buono, e un Money Transfer. Cinquecento metri più a nord c’è la sede nazionale di Casa Pound.

I conflitti si vedono anche perché Roma è molto più povera delle capitali nordeuropee o di Milano. Come le città del Sud del mondo, non si gentrifica. Nelle grandi capitali dell’Occidente la middle class disciplinata ha imposto alle classi popolari indigene o immigrate dei confini, delle regole di comportamento e dei gusti. Parigi è il culmine di questo processo: dentro il Boulevard périphérique l’egemonia borghese è pressoché totale, negli spazi come nei comportamenti, che sono ordinati, dominati da quella gentilezza passivo-aggressiva che è il tratto costitutivo dell’educazione borghese e che troviamo, in forme diverse a seconda delle diverse culture locali, a Londra, Berlino, New York, ma anche a Milano, Madrid o a Barcellona. A Roma l’egemonia resta popolare, o se si preferisce plebea. Tutta l’Italia appare sotto questo aspetto se confrontata con l’Europa settentrionale, ma a Roma il processo ha un’evidenza tutta sua. Walter Siti, che non è romano, lo ha detto molto bene: contrariamente a ciò che pensava Pasolini, a Roma non è stata la borghesia a addomesticare la borgata; è stata la borgata a stingere sulla borghesia. Le maniere veramente borghesi non esistono, tutti si danno del tu, si litiga per strada o sulla tromba delle scale, le distanze fisiche e morali fra le persone sono molto più ridotte di quanto non siano a Parigi, Londra, Milano o anche solo a Firenze. La distinzione fra Roma Nord e Roma Sud, che sembra così importante per l’autorappresentazione dei romani, è quasi invisibile per un non-romano. Ovunque si percepisce senza troppe mediazioni la conflittualità molecolare, l’anarchia dal basso, l’individualismo primigenio; su un muro di via degli Equi campeggia la scritta «come ce pare». Tutto questo comunica una specie di cinismo atmosferico, comunica l’eterno disincanto delle classi popolari, di chi ha vissuto ogni potere come un’imposizione e non crede a nulla se non al proprio interesse personale e familiare, però temperato dalla coscienza che alla fine tutti sono dei poveri diavoli e hanno una famiglia, e nulla conta veramente «perché tanto dovemo mori’». (A Roma la morte e il senso della vanità universale sono ovunque. Il mio quartiere non fa testo: c’è il Verano. Ma all’inizio di via Appia Nuova, vicino alla fermata San Giovanni della metro, in una strada commerciale, fra Zara e Kruger, c’è una porta a vetro zigrinato con gli infissi di alluminio e una scritta fatta con le lettere adesive che si vedono dai ferramenta o nelle carrozzerie: è un’impresa di pompe funebri. In città se ne incontrano moltissime, e in luoghi nei quali ci si aspetterebbe di trovare altro. Qualche settimana fa, nella metro B, pubblicizzavano funerali economici, 800 euro tutto compreso; stessa su via Tuscolana, all’altezza del Quadraro, con cartelloni giganteschi al centro della carreggiata). Roma è, alla lettera, un palinsesto, una superficie raschiata molte volte sopra la quale la città moderna convive con le tracce di due fra i più grandi imperi di tutti i tempi, con i resti di molte società scomparse. In nessun’altra città al mondo il peso del passato è così ingente e così difficile da portare; in nessun’altra città al mondo quello che Nietzsche scrive sull’utilità e il danno della storia per la vita risulta vero a ogni passo. E poi c’è il cielo, questo cielo azzurro per sette mesi all’anno, che tende al grigio quando sale la temperatura; un cielo senza movimento e senza nuvole, che ha visto di tutto e non si stupisce più di nulla, nichilista e implacabile, tragico senza essere serio, come la città. Insomma: Roma ha inciso sulla scrittura della Pura superficie in un modo che non riesco ancora a capire bene. Potrei continuare a parlarne a lungo.