Esilio in Corpus Domini

Ricordo volentieri di avere avuto una ghirlanda
e aver camminato nelle processioni.
E vestita a festa ascoltavo
i fiati trionfare in chiesa,
di lato i santi hanno visto il mio stupore.

Non conosco fuga né mai ripiegai le mie radici,
ma qui, dentro i paesi delle mie genti conosciute,
dentro questo tempio dei valori educati
e delle molte solitudini, vicine di casa,
io sono in esilio.
In mezzo ad alberi, dentro all’erba, sotto i fiori,
io sono la zolla staccata dei campi coltivati.

In questa festa, il vento picchia forte i gonfaloni,
alza in volo le cause dei martiri,
i venerati patroni in virtù delle pie unioni.

Questo luogo partorì la mia vita
e la mia storia non ripeterà tale giorno.
Eppure come manca il tempo dentro ai nostri rosari, sono assente
nel gesto umile delle mie genti inginocchiate.

 

Da: La terra più del paradiso, Einaudi, Torino 2008, p. 46

Roberta Dapunt è nata e vive in Val Badia («Casa mia è il maso, dentro al quale fluiscono anni e coscienza, cadenza che non chiede il permesso di denunciare/ a ogni sguardo, in ogni angolo il suo passato,/ epifania presuntuosa di generazioni avvenute» scrive nella poesia del vivere consueto pubblicata in Sincope nel 2018). La sua poesia sembra non avere alcun legame con qualsivoglia corrente, scuola o tendenza. Un amore della solitudine che appare, allo stesso tempo, una scelta di vita e una vocazione.

La dimensione religiosa arcaica («Ciò che conosciamo da sempre, ora ci succede/ di riconoscere soltanto» – scrive a proposito nella citata del vivere consueto), che pervade il mondo a cui la Dapunt appartiene, rappresenta un punto di riferimento fondamentale del suo mondo poetico. Una religiosità dalla quale si è gradualmente allontanata, ma che ha segnato prima la sua infanzia e poi il suo immaginario in modo decisivo e alla quale la comunità  (“i paesi delle mie genti conosciute” li definisce l’autrice nella citata poesia) di cui fa parte la poetessa, è fortemente legata.

Ne è testimonianza proprio la poesia Esilio in Corpus Domini, pubblicata nel 2008 nella raccolta La terra più del paradiso. Forse ancora più esplicita in tal senso è la poesia contenuta nella stessa silloge «Buona è l’ostia delle domeniche sera» nella quale la Dapunt scrive: “Buona è l’ostia delle domeniche sera, che mi entra dentro/ per un Amen pronunciato invano./ Ed è un tempo corto il suo consacrato sacrificio,/ un’avida liturgia il suo indefinito sapore./ E mentre si scioglie nell’uragano della mia saliva,/ il mio corpo fuori trema per l’incontro non avvenuto”.

Nella recentissima raccolta Sincope del 2018, la poetessa, a dieci anni di distanza, riprende lo stesso tema: «Così dice il Signore, dice cosa?/ A me mai mi dice niente, e rimango in silenzio a lungo/ e spesso ascolto e mi concentro/eppure niente, non un soffio.// Mi rimane di starmi zitta dentro/per sentire meglio e scrivere e basta», scrive in « Così dice il Signore». Un silenzio che diventa però esso stesso segno, punto interrogativo. (“Genti di Ludaria, incontro poche mani e tremo,/ avete scordato Dio? Oppure è lui che vi ha dimenticati?/ Perché in questa assenza i corpi sepolti non trovano riparo,/ in questa assenza i corpi morti rimangono tali/../” dichiara la poetessa in Morte di Sandro Pittin), e con il quale, non a caso, si chiude la silloge: «Parlerò rivolgendo voce e vocaboli alla mia condizione interiore/ e i miei orecchi presteranno ascolto a ciò che da dentro mi darà risposta./ Non ci saranno suoni, non sentirete vibrazioni, nessun fonema,/ poiché il silenzio, esso e lingua di tutte le lingue» – scrive la Dapunt in « Nel silenzio, ho pensato». Il silenzio, che è anche quello della montagna, fa da contrappunto alla sua voce e affiora in continuazione nelle sue liriche. Rappresenta cioè lo sfondo sul quale percepiamo la sua voce. La rarefazione dei suoni e dei segni della presenza umana, così tipico della montagna, sono ciò che, evidentemente, rende la sua poesia così intensa e, allo stesso tempo, intima. Un silenzio nel quale la poetessa non cessa mai di scavare in profondità alla ricerca di una dimensione trascendente (“Accompagnami eterno, non mi abbandonare/ fai di me il tuo alito silente,/ poiché mai ti potrò esprimere meglio.” scriveva in «conforto del mortale»). La tensione tra l’assenza del divino e la sua disperata ricerca credo sia il senso più profondo del suo fare poesia, accompagnato da una profonda riflessione filosofica sul senso dell’essere. Di questi tempi non è poco.