n. 1

La verità è che i quattro salti in padella
non so’ cattivi (all’oasi
della birra i due studenti, biglietto timbrato
proiezione esclusiva):
lo isolavo tra il dire senza dire
di Kircher, dei frammenti di Leopardi
tarantato
(che poi, m’interrogavo verificando la faccia,
di questo si fanno le vite, le cose:
incontri, chiamarsi, chiavare, per dirla con l’ES).
D’altronde sono tre le ipotesi: amicizia, relazione, intimità
e delle tre nessuna (verificata
la faccia ha troppi denti
o pochi, o non saprei sceverare il teschio,
l’origine, risalire, dei frammenti, i primitivi,
di te, quell’astratto che precede la verifica)
oppure la prima, a condizione
che sostenga passaggi,
fluttuazioni e sfumature.
Ma se fosse ancora il tempo – la colpa, dice C. –
di sperimentare (edificare no, ch’è tardi, o presto, e
la biologia finisce dove comincia l’evoluzione
dei costumi, o le opinioni,
a ricordarsi del presente stato):
iniziare, consumare, finire
la via che riporta
alla sentenza un pezzo per volta,
senz’alternative.
Astrazioni, distrarsi dal contesto e ricalcare il fare
metaoperativo: un oggetto che serve a qualcosa cui la
forma non rimanda, lo scopo senza la funzione
(verificare la faccia, a invalidare
ciascuna delle tre obbligazioni),
di più disorientarsi, finire senza cominciare o viceversa,tutto
scorrendo, limando solo le malattie,
proscrivendo la morte,
sconfessando il dolore (superando?),
ch’è fardello che ti accolli da troppo, e la vita,
quella degli altri, è fatta di cose piccole, leggere, buone,
di quattro salti in padella, non per dire

Da: Inattuali, Transeuropa, Massa 2016

La verità è che i quattro salti in padella/ non so’ cattivi” – si apre così l’ultima raccolta di testi poetici di Gilda Policastro (aveva esordito nel 2010 con la silloge Stagioni), autrice di prosa, studiosa, critica e collaboratrice di numerose testate e blog. Inattuali consta di 13 testi numerati senza titolo. La stessa autrice spiega il senso di questo suo lavoro in una lunga nota finale: «raccolgo l’eredità di quella parte del vecchio secolo che ha interpretato la poesia come campo di ricerca svincolato dalle aspettative del mercato, prima fra tutte (e valevole in particolare per il romanzo) la cosiddetta leggibilità. Vero è che il montaggio e l’ars combinatoria prima e il googlism e il cut-up poi, portando avanti una linea dell’avanguardia che va da Queneau fino a Balestrini, hanno rischiato di trasformare la poesia in un ambito di verifica permanente, il cui fine ultimo andrebbe a coincidere, nei casi peggiori, col testo in sé, non più col coinvolgimento o l’interesse del lettore. È altrettanto vero però che nessuno può dirsi esente dagli influssi del proprio tempo e che le forme più classiche, le modalità più canoniche si contaminano, soprattutto a livello tematico e lessicale: la poesia non può più parlare d’amore (né d’altro, a ben vedere) se non mediandone, decostruendone gli stereotipi attraverso i nuovi canali». I testi di questa silloge, nei quali la nota predominante è a tratti ironica e a tratti drammatica, sono costruiti a partire da frammenti di dialoghi, come quello testé citato, raccolti per la strada (“Annoto perciò le frasi che orecchio ai tavolini del bar vicino casa come sull’autobus o sui treni. Annoto quando c’è da annotare, cioè quando qualcosa dal rumore di fondo, dal chiacchiericcio quotidiano e volgare si pone in evidenza per originalità o straniamento” – dichiara la stessa autrice). Partendo da questi frammenti di dialoghi o affermazioni (o meglio, per usare la definizione dell’autrice: “simulazione o dispendio di assertività sapienziale, un finto deposito gnomico consegnato a una boutade paradossale o ironica”), l’autrice costruisce testi secondo quelli che sono i principi e le pratiche delle neo-avanguardie, ma aggiornati ai nostri tempi, nei quali il mondo digitale si sovrappone a quello analogico fino a rendere quest’ultimo irriconoscibile (forse persino inconoscibile).

Esiste un genere di fotografia che si è affermato da qualche decennio, la cosiddetta “street photography” che è basata su questo gioco tra la realtà e la rappresentazione del mondo; il fotografo che si riconosce in questa definizione è chiamato a cercare quei punti in cui si genera uno scarto tra una rappresentazione del mondo “ufficiale” (potrebbe forse essere definita “borghese”?) e la realtà che (si) trova davanti al suo obiettivo. Può essere ipotizzato secondo lei un nesso tra la sua poetica e questo genere di fotografia?

La rappresentazione della realtà è così essenziale all’arte da costituire un campo permanente di tensioni e contrapposizioni. Nel decennio passato in letteratura e cinema ha dominato il cosiddetto neo-neo-realismo, più o meno a partire da Gomorra di Saviano, uscito nel 2006. Anche in poesia ha ripreso quota la convinzione, fortemente antiavanguardista, secondo cui l’arte dovrebbe dar conto in forme documentali o di engagement più o meno ostentato delle «condizioni esterne», come le chiamava Sanguineti. Che non ne disconosceva la centralità nella percezione e rappresentazione del reale ma che, come i sodali dei Novissimi e poi del Gruppo 63, riteneva andassero restituite nelle modalità del conflitto, della critica storica e soprattutto attraverso il rinnovamento delle forme e del linguaggio. Questa eredità è stata raccolta da un’area minoritaria della poesia attuale, che a mio parere è anche la più interessante e vitale: quella della cosiddetta ricerca. Un’area che guarda ai nuovi modelli soprattutto francesi, in particolare a quel genere «post-genere» che va da Ponge ad autori più prossimi a noi come Tarkos e Quintane e che si basa su un rapporto rinnovato con il «mistero ambiente» (Ponge) e i «contesti schermati» (Gleize) e sul piano formale smonta le gerarchie tra i diversi codici, sfumando la distinzione fra quelli egemoni (e nella vulgata merceologica separati e distinti) della prosa e della poesia (un po’ meno egemone, la seconda, negli ultimi decenni). Come sempre accade alle innovazioni letterarie, la loro consistenza e tenuta si verifica in un ambito più ampio di quello da cui originano: in Italia Magrelli ha parlato, indipendentemente da Gleize, di «genere de-genere», Antonella Anedda ha pubblicato in collane di poesia libri in cui la prosa coesiste a-gerarchicamente con la poesia (il testo che va a capo, per intenderci), così Guido Mazzoni. I più giovani poeti dell’area di ricerca propongono oggi la categoria di poesia “anomala” o “estrema” per scritture programmaticamente distanti dalla lirica di scuola o istituzionale, irricevibile come forma del contemporaneo con tutte le sue pretese essenzialiste e i suoi cliché. Anche in ambito figurativo si parla ormai di post-fotografia, in ragione dei mutamenti intervenuti nei sistemi di produzione, negli strumenti e nei supporti: si tratta di immagini che non restituiscono l’unicum dell’evento nella sua dimensione auratica e nemmeno si pongono strettamente come documenti, essendo di per loro immerse in un flusso deperibile e sostituibile, com’è tipico dell’era digitale. Il mondo fuori dalla nostra concezione egoriferita è una sequenza caotica di frammenti da riorganizzare o da riproporre nella modalità del cut-up: questa consapevolezza per me si è tradotta nel progressivo avvicinamento all’eavesdropping, l’ascolto casuale del discorso comune, riprodotto nei testi con un intervento autoriale più o meno marcato e comunque inevitabile. A partire dalle Inattuali (2016) fino all’ultimo libro, Esercizi di vita pratica (uscito per Prufrock spa nel 2017), dallo pseudoaforisma intercettato per caso parte un discorso sui temi del contemporaneo, svolto anche in prose più distese, dei quasi-racconti di ispirazione malerbiana (col tipico “ronzio” monologante di alcuni suoi personaggi dei primi racconti e romanzi). Poesia e prosa nella mia scrittura non sanno escludersi o distinguersi né per linguaggio né per cadenza ritmica, ma credo sia un’esperienza comune a molti della mia generazione, cui non è gradito muoversi nell’ambito della poesia maiuscola o del «poetese» (la poesia che gonfia i pettorali o indulge al patetico), né tantomeno convertirsi all’obbligo sociale (e commerciale) del romanzo.

Nella sua nota finale, lei afferma: “la poesia è sempre e comunque uno sguardo: obliquo, trasversale, certo, ma di fatto una sezione dell’esperibile, dunque l’espressione di una soggettività che seleziona e pone in rilievo. ” – tuttavia si avverte nei suoi testi un peso specifico a tratti preponderante di echi e citazioni (debitamente segnalate) tratte da altri testi letterari di altri autori. Non vede in ciò una possibile contraddizione?

Non esiste una scrittura vergine e un occhio candido sulla realtà: qualunque operazione di messa in forma del mondo, anche quella più apparentemente ingenua, passa attraverso modelli e scritture che abbiamo frequentato o assorbito direttamente o indirettamente. È altrettanto vero che la più neutra delle operazione di riproduzione e montaggio, com’è noto anche dalle scienze dure, non solo reca traccia dell’occhio che guarda ma viene da questo modificata. La riflessione di autopoetica posposta alle Inattuali è datata a un momento della polemica interna all’area di scrittura più sperimentale della mia generazione, in cui alcuni dei poeti avversavano il ricorso alla soggettività fino a soffocare (come poi si è via via ritenuto impossibile) qualunque manifestazione o declinazione dell’io, soprattutto nelle forme del pathos di scrittura e del narcisismo performativo. Negli ultimi anni il dibattito è leggermente mutato e la “singolarità autoriale” non viene più rinnegata: gli autori della ricerca non sono entità anonime o collettive, ma firmano i loro libri e non disdegnano letture pubbliche, avendo maturato nel frattempo ciascuno una propria modalità di dizione e condivisione dei testi, al di là dell’abusata performance, ridottasi nei casi deteriori a teatrino cabarettistico o scimmiottamento di altre forme come il rap o la canzone. Mi piace ricordare quello che Eco disse di Balestrini, il più epico e impersonale dei nostri autori: “non ha mai scritto un verso di suo pugno, ma lo ha fatto in modo sempre riconoscibile”. E questo vale anche per i casi più recenti di ars combinatoria come il googlism, che fa poesia assemblando materiali reperiti nel web. Il che dimostra che l’io è un pidocchio resistente a ogni rimedio. E anzi, come i veri parassiti, più ostinatamente lo combatti, più si rigenera e prolifera. L’importante è conservarne consapevolezza, e magari non prendersi troppo sul serio: non dobbiamo salvare nessuno, caso mai divertirlo, nel senso più pieno e adulto, cioè intellettivamente evoluto.

Tra i vari temi che tratta nei tredici testi di Inattuali a partire dal testo n.9 compare un tema che successivamente ricorre in modo sempre più insistito: la morte (“Et in Arcadia ego” per dirla con gli artisti barocchi) e dal divertito gioco primi otto testi si passa a un tono decisamente più tragico. Nelle società contemporanee occidentali questo tema è ritenuto“sconveniente”, rimosso, celato o pudicamente confinato nella dimensione privata del lutto (a differenza del mondo pre-moderno). Crede che la poesia oggi debba entrare in questo territorio così delicato?

La poesia è, anzi, il solo genere autorizzato a farlo, secondo me. Il referto emotivo di una perdita, come ha dimostrato qualche anno fa Valerio Magrelli prima traducendo il diario del lutto di Barthes poi scrivendo Geologia di un padre, può darsi solo per frammenti e sconnessioni: dove si presenti in forma di narrazione compiuta e inevitabilmente seducente, sconta subito un surplus di oscenità e appropriazione indebita, visto che dell’evento più rilevante delle nostre vite siamo nelle condizioni di parlare solo per interposta persona (come hanno diversamente detto Leopardi e Benjamin). Nella mia prima fase poetica ho cercato di adottare per la poesia del lutto le forme di straniamento e di mediazione che mi suggerivano gli autori a me cari (penso soprattutto alla poesia di Laborintus in cui Sanguineti allude per citazioni criptate alla morte della madre, nell’unica menzione dedicata a quell’evento in tutta la sua opera), oltre a una dizione meno patetica possibile. Nelle Inattuali e anche negli Esercizi, attraverso l’espediente degli asterischi e quello ultracontemporaneo dei captcha (molto apprezzato proprio da Magrelli, in una sua recensione recente) censuro la morte, ma al contempo la sovraespongo nella modalità elencatoria, montando e rielaborando una serie di dati presi dalle statistiche e dalla cronaca e chiudendo col verso “sotto ai cipressi, un selfie”, che switcha da Foscolo all’Instagram.

Dalle due precedenti interviste a Filippo Strumia e a Guido Mazzoni è emerso che proprio Roma, con tutto il suo endemico deficit di funzionalità e il suo costante rumore di fondo ha giocato un certo ruolo nei loro recenti lavori. Quale ruolo ha avuto la città di Roma nell’ideazione e nella stesura di questa sua raccolta?

Non conosco la biografia di Strumia, ma so che Mazzoni vive a Roma da pochi anni e questo gli garantisce, come emerge dalla risposta all’intervista, una possibilità di sguardo molto lucido e chirurgico, in alcuni momenti quasi da dissezione anatomica. Per quel che mi riguarda, l’ho scelta con molta ostinazione come città universitaria, contro il parere dei genitori che avrebbero preferito Pisa, dove studiavano già i miei fratelli. A questa scelta giovanile di ribellione non ha fatto seguito un particolare anticonformismo: vivo in un quartiere piccolo borghese, di impiegati e studenti (più o meno abbienti, direi, dato il costo della vita), una zona tranquilla, relativamente pulita fino all’emergenza immondizia degli ultimi anni. In pratica è come se avessi continuato a vivere in provincia: non sento il peso della storia, non vedo ogni giorno monumenti millenari, non devo confrontarmi con i problemi della megalopoli e quando mi sposto di quartiere ho l’impressione di fare un viaggio, di andare in un’altra città. Sono tantissime le anime di Roma, diversi gli accenti, l’abbigliamento. Esistono tipi umani che vedi solo a Testaccio, altri solo a San Lorenzo o a Prati (un mio collega di università mi confidò che la sua famiglia non avrebbe accettato un’eventuale fidanzata oltre i confini di Roma Nord). Il nostro legame quotidiano con una città è prima di tutto sonoro: quel repertorio di rumori che a differenza delle voci s’impara presto a silenziare nella propria testa, specie se si fa un lavoro che richiede concentrazione. Le voci degli altri, invece, non possono non raggiungerti, e i romani parlano a voce sempre molto alta, almeno nel mio quartiere. Da queste aggressioni sonore, che subivo inizialmente con molta insofferenza, è nata la mia pratica, prima che la mia poetica, delle Inattuali, un esercizio di disattenzione alla realtà discorsiva circostante, da cui emergevano di per loro isole di senso o di non senso. Dall’appunto occasionale sono poi passata a un programma sistematico di archiviazione delle frasi che sento intorno, quindi non più l’eavesdropping ma un vero e proprio archivio mobile del parlato contemporaneo (preso da autobus, treni, al bar, ma anche da Facebook o Instagram), in continuo aggiornamento. Nella natura delle epifanie, anche di quelle sonore, c’è però l’effetto sorpresa, quindi quanto più ne sono in cerca meno ne trovo di significanti, cioè vuote o sovraccariche di senso a seconda del contesto di provenienza. Ma da quando sono uscite le Inattuali (e poi le Nuove Inattuali e le Novissime, nel sito dell’editore e in altri blog) molti miei amici, poeti, allievi del corso di scrittura o meri contatti social s’incaricano di arricchire il mio sciocchezzaio: una specie di gioco collettivo meno gratuito di quel che può parere, ovviamente. Perché non sempre l’impegno, nelle arti, s’incarna in forme esibite di aderenza emozionale: esiste un’empatia più radicale e profonda che viene dal riconoscimento nella differenza, dalla presa in carico del caos attraverso l’intervento non ordinatore (e non prevaricatore) del cut-up. Finanche un grande poeta di assoluti e di stati emotivi profondi come Milo De Angelis ha opportunamente stigmatizzato l’esibizione dell’impegno “strappa applausi” (eppure insegna letteratura ai detenuti del carcere di Opera!), nel suo recente libro di interviste La parola data. Il pathos non è un’esibizione ma una condizione preliminare, che ha necessità di ritradursi in forma intellettualmente elaborata rispetto alla salmodia del dolore: altrimenti non avremmo poeti ma catechisti.