Esterno del gatto
Essere un gatto,
fare uno sforzo per esser gatto
transitorio dell’alba e sulla cima
del mondo percorso, presumibile.
Esser gatto fuori tutto il gatto possibile
dopo quel tigrato splendore della notte
ultima e sbalordita contrazione felina.
Ricominciare nello zinco al bordo dell’unghie,
nel cielo dove sgocciola la vuota grondaia
e nel fiore spettrale dove cresce tra le sbarre.
Il gatto che risveglia passo a passo le vecchie
misere spalle di quella fabbrica malconcia
e l’aria di cotone di quell’aria per terra
e la parete sbeccucciata fino al cammino
e pure il bidone sonoro dal grave peso.
Esser gatto fuori e tanto preciso. Sembra
che il mondo entri dentro questa pausa ondulata,
esatta come un astro, che ti chiama
a cui non negherai fermarti nuda
dove nessuno t’avrebbe immaginato
aurora sopra il mondo scorticato,
alba rosata sul grigio d’un gatto,
con le notturne punte di quei petti
indicano gli uomini cavillosi
che arrivano pian piano, pestando quei dintorni.
Exterior del gato
Ser el gato,
hacer un esfuerzo y ser el gato
transitorio del alba y en la cumbre
del mundo transitado, y presumible.
Ser por fuera del gato todo el gato posible
después del atigrado resplandor de la noche
última y la pasmada contracción felina.
Comenzar en el zinc al borde de las uñas,
en el cielo que escurre el canalón vacío
y en la flor espectral que crece entre las rejas.
El gato que despierta paso a paso las viejas
miserables espaldas de fábrica baldada
y el aire algodonoso de las ramas al suelo
y la tierra afeitada del muro hasta el camino
y hasta el bidón sonoro que su peso estremece.
Ser gato por fuera y tan cabal. Parece
que el mundo quepa dentro de esta pausa ondulada
precisa como un astro, que te llama
y a quien no negarás el pararte desnuda
donde nadie hubiera imaginado
aurora sobre el muro desconchado,
alba rosada sobre el gris de un gato,
con las puntas nocturnas de los pechos
apuntando a esos hombres cavilosos
que llegan tan despacio, pisando en las afueras.
Da Usuras (1965), trad. di Fracesco Luti, in: Carlos Barral, Poesie scelte (1952-1986), Pagliai Polistampa, Firenze 2010, p. 97
Quella che successivamente venne definita “scuola di Barcellona” nacque e si sviluppò in maniera spontanea, apparentemente casuale, intorno a un personaggio, Carlos Barral, che nel 1950, appena laureato, cominciò a lavorare nella casa editrice co-fondata dal padre, morto durante la Guerra civile (ma di morte naturale). Fu grazie a lui se nel 1955 la casa editrice Seix-Barral, che fino a quel momento aveva pubblicato esclusivamente libri di testo, cambiò radicalmente indirizzo con l’apertura di una collana, la «Biblioteca breve», dedicata alle opere della narrativa mondiale contemporanea. Intorno a questa casa editrice (ma sarebbe più esatto dire intorno a Carlos Barral) si raccolse un gruppo di poeti e scrittori più o meno coetanei (molti di loro si erano conosciuti durante gli studi universitari e il servizio militare) accomunati dal rifiuto dall’oscurantismo della cultura ufficiale imposta dal regime franchista. Non erano solo le passioni letterarie e politiche a legarli, ma anche una profonda e solida amicizia. Il poeta Jaime Gil de Biedma, che Carlos Barral aveva conosciuto all’università, fu una figura chiave di questo gruppo, del quale fecero parte anche i fratelli Goytisolo, il poeta di Oviedo Angel Gonzales, il quale proprio in questi anni si era trasferito a Barcellona, il critico José Maria Castellet (quest’ultimo avrebbe curato, nel 1960 la storica antologia Veinte años de poesia española, che rappresentò un punto di arrivo di questo gruppo di intellettuali e poeti).
Dal punto di vista della poetica “generazionale”, i contemporanei fermenti europei, e soprattutto francesi poterono penetrare attraverso timide aperture (lecite ma solo all’interno del circoscritto recinto del mondo accademico). «I giovani si accostano al mondo in fermento della cultura europea più viva, all’esistenzialismo fracese, Sartre, Simone de Beauvoir, leggono Pavese, Vittorini, la narrativa neorealista, Brecht, Gramsci, il romanzo americano1» scrive Giovanna Calabrò nella sua Introduzione all’antologia La rosa necessaria (La rosa necessaria. Poeti spagnoli contemporanei. A cura di Giovanna Calabrò, Feltrinelli, Milano 1980, p. 10). Ma se per quanto riguarda la prosa, come scrive giustamente Calabrò, il realismo parve più idoneo a esprimere le istanze etico politiche della letteratura, «più problematico e meno appariscente fu il processo in poesia per la sua tendenziale vocazione minoritaria e l’impossibilità dunque di forzarla entro certi limiti che le sono propri». Ma tra i poeti spagnoli del novecento la figura a cui questo gruppo di poeti si sentiva idealmente più legato era quella di Antonio Machado. L’omaggio al poeta nel ventennale della morte (nel febbraio del ’59), al cimitero di Collioure, in Francia (ma a pochi chilometri dal confine spagnolo), si trasformò in un momento importante per il gruppo perché rappresentò anche una presa di coscienza delle possibilità di costruire un progetto collettivo, che poi si sarebbe effettivamente realizzato con la pubblicazione dell’antologia del 1960, la summenzionata Veinte años de poesia española, come Carlos Barral scrive nel suo volume di memorie: «Il fatto è che quella sera compresi che era nelle mie mani la possibilità di far rispettare la poesia. Quella che noi e pochi altri tentavano di fare e che soprattutto andavamo predicando come proposta di ricambio della poesia ufficializzata delle antologie degli ultimi tempi – che ci ignoravano – o dalle riviste letterarie – che ci ritenevano alieni – oppure dall’inerzia dei professori e degli intellettuali da caffé della capitale».
Dopo aver pubblicato l’antologia, infatti, la casa editrice Seix-Barral avviò la pubblicazione di una collana, diretta da Castellet e intitolata significativamente “Colliure” che tra il 1961 e il 1966 avrebbe pubblicato tutti i più importanti poeti della generazione degli anni ’50 (tra loro Ángel González e il suo Sin esperanza, con convencimiento del 1961; José Agustín Goytisolo con Años decisivos, del 1961; Carlos Barral con Diecinueve figuras de mi historia civil, del 1961; Jaime Gil de Biedma con A favor de Venus, del 1965; infine Alfonso Costafreda con Compañera de hoy, del 1966).
Come poeta, Carlos Barral aveva esordito a ventidue anni, nel 1952, con la plaquette Las aguas reiteradas, pubblicata della rivista «Laye». Aveva già manifestato in questa raccolta giovanile i segni di una poetica caratterizzata da un lirismo ermetico e da un controllo costante e vigile della parola, delle assonanze e del ritmo. I temi più ricorrenti in questa fase sono il rapporto tra l’uomo e la natura, al quale si ricollega l’erotismo. Con la raccolta Diecinueve figuras de mi historia civil, del 1961, il poeta si era volto verso un realismo rispondente a quelle che erano i dettami politico-ideologici dell’epoca, ma già con la sua successiva plaquette, Usuras, del 1965, Barral vira nuovamente verso quei temi metafisici che avevano caratterizzato le sue prime raccolte di poesia, come è dichiarato anche nel sottotitolo della raccolta: «4 poemas sobre la erosión y usura del tiempo». L’anno successivo pubblica Figuración y fuga, che comprende tutto ciò che aveva pubblicato dal 1965 e qualche inedito, come questa Esterno del gatto, divenuta una delle più celebri poesie dedicate ai felini, in cui però l’animale, a ben vedere, rappresenta solo un pretesto per ridefinire il rapporto tra il soggetto e la sua identità sullo sfondo di una città addormentata e grigia, come lo era la Barcellona di quegli anni, in cui i fermenti della vita culturale erano confinati nei rapporti personali all’interno di quel circolo di poeti e scrittori che non vollero rassegnarsi all’oscurantismo clericale della cultura di regime.
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