L’arte della poesia
Nella grande casa cui appartengo
resta solo un tavolo, intorno
è una palude sconfinata
da ogni parte la luna splende si di me
il fragile sogno di uno scheletro ancora in piedi
in lontananza, come un’impalcatura non smantellata
e impronte di fango sulla carta bianca
la volpe nutrita per tanti anni
con un colpo della sua coda fiammeggiante
mi lusinga, mi feriscenaturalmente, ci sei anche tu, seduta qui davanti
i lampi a ciel sereno che brillano nelle tue mani
diventano legna da ardere, mutano in cenere
Da: La rosa del tempo, trad. di Rosa Lombardi, Elliot – lit Edizioni, Roma 2019, p. 75
Questa lirica è stata scritta da Bei Dao, poeta cinese e figura di riferimento per una generazione di poeti che aveva cominciato a scrivere nel corso degli anni ‘70 in edizioni semi-clandestine.
Si tratta di un autore che è ha vissuto sulla propria pelle le più nefaste conseguenze delle scelte derivate da una intransigente interpretazione dell’ideologia comunista. Secondo quelli che erano i dettami della cosiddetta “Rivoluzione culturale”. Appena sedicenne, Bei Dao (al secolo Zhao Zhengkai, il suo pseudonimo si traduce come “Isola del nord”), che proviene da una famiglia di quadri del partito, abbandona la scuola e si unisce alle Guardie rosse, rispondendo agli appelli di Mao che chiama i giovani alla lotta per cancellare la vecchia cultura. Nel 1996, appena ventenne, viene mandato in una zona remota a trecento chilometri dalla sua Pechino, per svolgere lavoro manuale e vi rimarrà per quasi tredici anni, lavorando come operaio prima e poi come fabbro in un cantiere edile. In questi anni la censura mise al bando la quasi totalità dei libri che non fossero classici del marxismo e opere di Mao (tuttavia Bei Dao aveva avuto la possibilità di leggere alcuni libri “proibiti” come classici della letteratura dell’inizio del ‘900 che aveva trovato nella soffitta della sua casa).
Bei Dao tenta di discostarsi dalla poetica del realismo, unico indirizzo consentito e promosso dalle autorità, ma deve farlo in modo molto accorto. Non può nemmeno rifarsi a una tradizione culturale che è stata completamente cancellata. Fin dall’inizio i suoi versi venivano considerati incomprensibili, e quindi anche non molto pericolosi, da parte delle autorità preposte alla vigilanza in campo culturale. I messaggi lanciati nelle sue poesie sono per lo più cifrati (e anche l’uso degli pseudonimi è nato per eludere il controllo delle autorità). A volte si riesce a intuire facilmente il bersaglio della sua poesia, come ad esempio in Risposta, nella quale scrive: «Sono venuto in questo mondo, / portando solo carta, corda e ombra, / per proclamare prima del giudizio, / la voce giudicata: // lascia che ti dica, mondo, / io – non credo! / se mille sono gli sfidanti sotto i tuoi piedi, / considerami allora il millesimo e uno.» (Bei Dao, Op. cit., p. 45) Tuttavia non bisogna fare l’errore di inquadrare quella di Bei Dao come una semplice “poesia di protesta”.
Lo stesso autore, in un’intervista citata nella Introduzione della curatrice del volume, Rosa Lombardi, in merito alla sua poesia dichiara: «Ho cominciato a scrivere poesia all’età di vent’anni (..) Ma quando ripenso a quel momento, cercando di individuarne le ragioni, provo sentimenti complessi e resto confuso: come iniziai a scrivere? Da dove venne l’impulso originario? È il cosiddetto destino che ci porta a scrivere, oppure è scrivere che determina il nostro destino? (..) questo mi ricorda i primi tempi da fabbro, quando ero frustrato dai primi oggetti che producevo. Mi accorgo che un poeta e un fabbro sono molto simili: entrambi inseguono un sogno di irrealizzabile perfezione» (Bei Dao, Op. cit., pp. 33-34). Un altro poeta contemporaneo cinese, Gu Cheng, spiega bene la condizione di una generazione che aveva vissuto il trauma della rivoluzione culturale: «La poesia contemporanea cinese si differenzia dalla poesia straniera contemporanea, come pure da qualunque altra poesia della storia cinese. Anzitutto in Cina c’è stata la Rivoluzione culturale: è stata un’epoca davvero vuota, isolata da tutto come un vaso di ferro; ciascuno ne ha sofferto la pressione, senza poter ricevere alcun aiuto dalla cultura, dalla storia o dal mondo esterno. In questa situazione la gente voleva ancora esistere, e tra costoro un piccolo numero non ha potuto che dissetarsi con le proprie lacrime, con la propria voce o con i propri sogni; la poesia è diventata praticamente l’unica forma della loro esistenza. In questa solitudine alcuni sono morti, altri sono impazziti, altri ancora scrivono tuttora, sono conosciuti, sono diventati i poeti contemporanei. (..) Ancora oggi non siamo in grado di stabilire se la Rivoluzione culturale sia stata una punizione del Cielo o solo una verifica involontaria, ma possiamo chiaramente vedere che la poesia nasce della vita in sé, nasce dagli anni intollerabili della vita» (da: Nuovi poeti cinesi, Einaudi, Torino 1996, p. 214).
Di questa generazione di poeti cinesi, Bei Dao fu il punto di riferimento da quando, nel 1979, su un ciclostile di casa sua, egli stampa le copie di «Jintian», la prima rivista indipendente nella storia della Repubblica Popolare cinese che venne affissa sui muri di organizzazioni culturali e università di Pechino e venne chiusa dalla d’autorità nel 1980. Come giustamente nota la curatrice della precedente edizione italiana delle poesie dell’autore cinese: «Quello di Bei Dao è innanzitutto un mondo di pensiero, come rivela la calibrata astrazione dei suoi versi. Ciò che egli condivide con gli altri autori della configurazione cinese contemporanea – di cui la rivista «Jintian» costituì l’evento fondativo – è principalmente la visione della poesia come singolare forma di razionalità: spazio d’intellettualità capace di proprie procedure di pensiero indipendenti» (Tratto da: Claudia Pozzana, La distanza della poesia. Introduzione a Bei Dao, in: Bei Dao, Speranza fredda, Einaudi, Torino 2003, p. VIII).
Così come gli altri poeti della sua generazione, anche Bei Dao è un autodidatta che si è creato un suo linguaggio dal grado zero della propaganda e dell’ideologia. Ma, come si è detto, non è lo sdegno o la collera a ispirare i suoi versi, semmai piuttosto una fredda riflessione sul linguaggio, una paziente ricerca di immagini in grado di esprimere il valore di una individualità in un mondo dominato dall’assordante rumore degli slogan.
Claudia Pozzana, la curatrice del volume Speranza fredda, nella già citata introduzione si sofferma sulla citata lirica: «In Arte poetica, Bei Dao tratta esplicitamente fin dal titolo di questa esigenza di reinventare lo spazio di una sapere della poesia a partire dall’odierna indigenza: Di quella enorme dimora di cui appartengo / resta solo il tavolo, intorno / sterminate paludi / il chiarore lunare mi illumina da angoli diversi / il sogno dalla fragile ossatura sta lì come sempre / in lontananza, come un’impalcatura non ancora smantellata / e ci sono impronte di fango sulla pagina bianca / quella volte allevata per tanti anni / agitando la coda fiammeggiante / mi loda, mi ferisce. Non resta nulla di quell’enorme dimora a cui la soggettività poetica appartiene (letteralmente: “è subordinato”). In questa indigenza, nella condizione di degrado dello spazio culturale della poesia, per essere nuovamente poeta, anche se circondato dall’immensa palude, basta quel tavolo, e il “chiarore lunare”, che anche in, come in Domande al cielo, è la luce rarefatta di una tradizione poetica, capace ancora di illuminare “da angoli diversi”. La precarietà congenita dell’esistenza della poesia appare in questo reticolo di luci dall’ossatura fragile come un sogno, orizzonte di riferimenti lontani, ma persistenti “come un’impalcatura non ancora smantellata”. È inevitabile che le tracce della sterminata palude riappaiano come macchie sul foglio, ma la posta in gioco è riuscire a ripulire la scrittura poetica da quel fango, o forse a trasformarlo in materia prima della poesia stessa.
Ma per quanto difficili siano le condizioni esterne c’è anche una difficoltà interna alla soggettività poetica: “quella volpe allevata per tanti anni” che è, in contesto cinese, oltre che figura dell’astuzia, anche figura della seduzione, come attestato dalle “donne-volpi” della favolistica, fantasmi del desiderio femminile. Qui la volpe appare nella prima accezione, come una qualità interiore, a lungo coltivata come positiva, e pur sempre seducente per l’immagine di sé, ma nel momento in cui sembra appagare un desiderio di riconoscimento (“agitando la coda fiammeggiante / mi loda, mi ferisce”), infligge l’angoscia del misconoscimento: le lodi feriscono. La “coda” che la volpe agita – che che essa non riesce mai a nascondere interamente – in cinese idiomaticamente equivale al “vero volto” che prima o poi si svela. /../ e poi, certo, ci sei tu, seduto di fronte a me / le scintille azzurro cielo che ostenti nel palmo / diventano legno secco, si trasformano in cenere. Nel “tu” di questo finale convergono due figure possibili. Potrebbe essere rivolto al “tu-lettore”: se tratterai questa poesia come occasione per esibire abbaglianti opinioni costituite, vedrai quelle “scintille” trasformarsi in cenere. Ma potrebbe anche essere la poesia stessa che rivolgendosi al “tu-poeta “, lo ammonisce sui rischi di nullità dell’esibizione di scintillanti virtuosismi.» (Claudia Pozzana, Op. cit, p. XIX-XXI).
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