Note sulla poetica

Serbare l’inespresso, come il midollo.
Apprendere dal pomo: terra, calce e pioggia
Lavoran solo per il frutto, e trovano espressione
In questa palla imperfetta, e tuttavia matura
Che non si assomma con la pera.
Esercitare l’arte di rinuncia.
Calpestare la traccia.

Stare innanzi allo specchio, privo di timore
Dell’immagine riflessa: essa rende l’espressione,
Imperfetta, di uno sforzo tenace
Di vestire di carne l’astrazione,
In un buon conduttore di dolore.

Eppure, senza scrupoli,
Dire pane al pane, e vino al vino
Ed alla donna amata: ti amo.

da: Ivan V. Lalić, Poesie, Jaka book, Milano 1991, p. 109.

 

Nato a Belgrado nel 1931 in un famiglia dell’intellighenzia serba (suo padre era un giornalista). La sua infanzia felice fu bruscamente interrotta dal bombardamento di Belgrado del 6 aprile del 1941, nel quale perirono, tra le migliaia di abitanti, anche molti suoi compagni di classe. Gli anni della guerra e la scomparsa della madre per tubercolosi nel 1946 lasciarono un segno indelebile anche nella sua poesia. Studiò legge a Zagabria (dove si era trasferito nel 1946) e, nel 1952, alcune sue poesie cominciarono a comparire sulle riviste. L’anno precedente aveva pubblicato una sua traduzione de Le Bateau ivre, di Arthur Rimbaud, inaugurando l’attività di traduttore di poesia, che proseguirà per tutta la vita in parallelo a quella di autore. Nel 1955 pubblicò Bivši dečak (in it.: “Il ragazzo che fu”), sua prima raccolta di poesia. Nello stesso anno si laureò in giurisprudenza, ma non eserciterà mai alcuna professione in questo campo. Cominciò a lavorare a Radio Zagreb. Nel 1961 tornò a Belgrado e in quell’anno pubblicò Vreme, vatre, vrtovi  (in it.: “Tempo, fuochi, orti”), che si aggiudicò il premio Zmaj, quarta raccolta di poesie nella quale l’autore incluse una selezione delle tre precedenti, allo scopo di definire in maniera più netta il suo profilo e la sua poetica. Divenne una figura importante nel panorama delle lettere nell’allora Jugoslavia: nel 1961 fu segretario dell’Unione degli scrittori jugoslavi e nel 1964 cominciò a lavorare per una casa editrice di Belgrado. Con Izbrane i nove pesme (in it: “poesie scelte e nuove”), la sua ottava raccolta di poesie del 1969, nella quale operò una selezione ancora più severa della sua produzione precedente (Lalić la considerò un punto di arrivo al quale far riferimento anche per quanto riguarda la sua produzione successiva), il poeta, ormai consacrato anche a livello internazionale, mise definitivamente a fuoco la sua cifra stilistica: un tono umano semplice e accessibile, i riferimenti a elementi naturali elementari (il sole, il vento, il cielo ecc.), le brillanti metafore in un dialogo continuo con il mondo della classicità mediterranea e con quello del Medioevo serbo e bizantino.

La poesia citata, tratta da Strasna mera (in it.: “l’appassionata misura”), del 1984, è una delle più chiare (e sofferte) espressioni della sua poetica, una sorta di autoritratto del poeta davanti allo specchio, che si auto-definisce “un buon conduttore di dolore”. Nella chiusura  tuttavia l’autore offre una via d’uscita attraverso l’espressione dei sentimenti personali nella forma più elementare e povera, come punto di arrivo di una riflessione che, nel primo verso era partita dall’inespresso (“serbare l’inespresso, come il midollo”), seguendo un percorso di auto-riduzione ascetica (“esercitare l’arte di rinuncia”), per arrivare, solo al termine di questo processo, di fronte a uno specchio, (ri)trovando una immagine del proprio corpo (il “buon conduttore di dolore”), come voler intendere che solo al termine di questo sofferto processo di re-definizione dell’io, al poeta è lecito esprimere i propri sentimenti nella loro forma più banale. Quando la poesia venne pubblicata, nel 1984, l’autore aveva 53 anni e una decina di raccolte di poesia all’attivo. Per questo la chiusura della poesia può essere considerata il punto di arrivo di un lungo percorso umano e artistico.