Canto orfico

Il corpo sciorina la sua vanità.
La grande notte
riempie il tempo fino al canto a quello
non sono necessari ascoltatori.

La morte è
un nulla selvaggio, un vuoto ai primi passi.
Di notte colmo come assopirò questa parola di buio desto
che nessun canto può ridurre a ragione
che nemmeno la terra può assorbire
né il fuoco trasformare né acqua portar via!

Io possiedo la mia notte, ma in quale
torbida pietra ho barattato il cuore per una pesante scintilla? O Forse
un nuovo corpo dovrebbe rinnovare il fragile sangue? Come osare
scambiare la strada col viaggio, l’essere col fuoco,
l’aroma interno con dell’ombra!

Da morta ha perduto tutte le mie prove
contro il vento, la morte, il freddo.
Ho amato con vergogna, con tenerezza, con onestà
questo corpo che si illumina il cammino verso la propria morte.
Il canto? Ma questa è una congiura contro il cuore!
L’inferno è infernale perché non è ben distribuito,
perché c’è una parola che non si può domare,
che non puoi tradire nemmeno,
una parola troppo vigile per il nostro cuore buono.

 

tratta da: Nuova poesia jugoslava, Guanda, Parma 1966, pp. 329-331š

Autore di questa lirica è Branko Miljković, poeta serbo morto giovanissimo, nel 1961, a Zagabria (aveva appena ventisette anni, essendo nato nel 1934 a Niš, nella Serbia meridionale) in circostanze non del tutto chiarite (il giorno prima di essere stato trovato impiccato in un parco della periferia di Zagabria era stato fermato dalla polizia). Aveva trascorso l’infanzia e i suoi primi anni di studi nella sua città natale, dove era stato testimone degli orrori della guerra (probabilmente è legato a questo trauma il tema della morte, ricorrente in molte delle sue liriche). Negli anni del liceo cominciò a scrivere, declamare e pubblicare le sue prime poesie, che cominciavano ad essere apprezzate nel circolo letterario della sua scuola e nel 1952, a diciotto anni, pubblica la sua prima poesia sulla rivista di Belgrado «Zapis». L’anno seguente si iscrisse alla facoltà di filosofia a Belgrado (città dove si era trasferito insieme alla famiglia) e dove si laureò nel 1957. Durante gli studi fondò un piccolo gruppo di poeti neo-simbolisti, che propugnava una sintesi tra simbolismo e surrealismo. Nelle sue poesie si nota l’influsso di Mallarme e Valery, ma è anche evidente una sua personale vocazione filosofica, unita a una vena pessimistica che lo accompagnerà per tutta la sua breve esistenza. Le sue poesie circolavano ed erano apprezzate tra gli studenti (era amico di Vasko Popa e Ivan Lalić) ma, a causa del suo rifiuto a entrare nel Partito, inizialmente ebbe qualche difficoltà a pubblicare. A Belgrado bussò alle porte di diverse riviste e case editrici, finché le sue poesie non furono notate e apprezzate dal poeta Oskar Davičo (figura di rilievo nel panorama letterario della Jugoslavia di quegli anni) il quale nel 1955 ne patrocinò la pubblicazione sulla rivista «Delo», cosa che gli aprì la porta di altre riviste. Nel 1957 esordì con la raccolta Izalud je budim (in it. “La desto invano”), che fu subito salutata da un certo successo, specialmente tra i giovani, ma il suo carattere scontroso e i suoi eccessi legati all’abuso di alcolici gli crearono non pochi problemi. Nel 1958 conobbe Jan Paul Sartre durante una visita a Belgrado (il francese apprezzò i suoi versi e i due divennero amici). Malgrado i successi, la fama di “poeta maledetto”, che non lo abbandonò mai, gli rese la vita difficile (non era visto di buon occhio da parte delle autorità). Per via di alcuni dissapori con altri poeti e per dimenticare qualche amore, nel 1960 decise di trasferirsi a Zagabria, dove aveva trovato lavoro nella redazione letteraria della radio locale. Morì l’anno successivo. Prima della sua tragica scomparsa, aveva fatto in tempo a pubblicare altre tre raccolte di poesia e alcune traduzioni dal russo e dal francese. Il fratello Dragiša si assunse il compito di preservarne la memoria (esiste anche un premio a lui intitolato). Malgrado la vita breve, la figura di Brankov Miljković lasciò un segno nella scena letteraria serba di quegli anni. La sua tragica morte, malgrado i sospetti e le illazioni, sembra essere l’esito più coerente delle sue scelte di vita, ma anche della sua poetica e la lirica citata, quasi una invocazione della  morte, quel “nulla selvaggio”, onnipresente nella sua poetica, che di lì a qualche anno si porterà via la sua giovane vita, sembra dimostrarlo. Ma, al di là della tragica circostanza della sua scomparsa, la poesia in questione possiede, a mio avviso, è anche una dichiarazione di poetica: il poeta, come Orfeo, deve scendere nell’ade alla ricerca di quella “parola che non si può domare”, avvicinandosi, anche a costo della propria vita, all’indicibile.