Si preparava la scenografia
del futuro. Il principio era questo:
un momento e già subito un ammasso di anni… Oggetti
accumulati che col tempo
perdono ogni precisa identità
ogni significato. Rivivono
in occhiate notturne
prima di andare a letto
solo di passaggio solo di passaggio
appena fissati per un attimo
e già rientrati in se stessi.
Scenografia che andrebbe scompigliata
dovrei disfarmene, distruggerla.
Mi sopravvivrà
chissà in quale altro spazio
chissà per quali altri immemori occhi.

da: L’adolescenza e la notte, passigli, Firenze 2015

Luigi Fontanella, a cui abbiamo dedicato un precedente post, vive tra New York (città a cui ha dedicato una poesia menzionata in questo blog) e Firenze. Ha pubblicato libri di poesia, narrativa e saggistica. Ha pubblicato libri di poesia, narrativa e saggistica.  Fra i titoli più recenti: L’angelo della neve. Poesie di viaggio (Mondadori, Almanacco dello Specchio, 2009), Controfigura (romanzo, Marsilio, 2009), Migrating Words (Bordighera Press, 2012), Bertgang (Moretti & Vitali, 2012, Premio Prata, Premio I Murazzi), Disunita ombra (Archinto, RCS, 2013, Premio Città di Sant’Anastasia). Dirige, per la casa editrice Olschki , “Gradiva”, rivista internazionale di poesia italiana (Premio per la Traduzione, Ministero dei Beni Culturali, e Premio Catullo) e presiede la IPA (Italian Poetry in America). Nel 2014 gli è stato assegnato il Premio Nazionale di Frascati Poesia alla Carriera.

Quali sono stati i poeti più importanti nel suo apprendistato, quelli che nella sua formazione ritiene abbiano avuto un ruolo importante o quelli a cui le è capitato, agli inizi, di ispirarsi o con i quali ritiene di avere un qualche debito?

Il mio apprendistato, soprattutto poetico, ai tempi del liceo, è costituito in particolare dalla lettura di alcuni poeti alessandrini dell’Antologia Palatina, a suo tempo splendidamente tradotti da Quasimodo (penso per esempio a certi frammenti di Asclepiade), e di poeti latini, specialmente Virgilio, Tibullo e Ovidio. All’università fu decisiva la lettura dei poeti simbolisti e surrealisti francesi, anche per gli studi da me accanitamente condotti per la mia tesi di laurea.

Quanto ai poeti italiani che ho maggiormente amato nei miei anni formativi: prima di tutto Foscolo e Leopardi. Del nostro primo Novecento ho amato e tuttora rileggo con profonda empatia la poesia di Ungaretti, Campana, Corazzini, Calogero, Sereni, Caproni, Sinisgalli (cito un po’ alla rinfusa); poeti di forte ispirazione anche visionaria ma sempre legata alla realtà in cui vivevano e operavano.

Per la mia effettiva formazione hanno però contato molto poeti a me coevi con i quali ho interloquito personalmente e mi sono confrontato (con alcuni di loro tuttora mi confronto). Ma non sono stati solamente poeti a nutrire la mia scrittura; molto hanno contato alcuni narratori italiani del Novecento, per me ineludibili, come Pirandello, Svevo, Tozzi, Borgese, Bontempelli, Landolfi, Palazzeschi, Delfini. Su tutti sento Italo Svevo lo scrittore di gran lunga quello a me più “consanguineo”.

Molto hanno contato anche alcuni studiosi e critici letterari che su di me hanno esercitato una influenza assoluta. Da loro ho imparato molto come strutturare saggisticamente un discorso critico. Ne cito almeno quattro, preminenti: Giacomo Debenedetti (ai tempi della mia università a La Sapienza), Dante Della Terza (mio Maestro a Harvard, al quale mi lega un affetto quasi “filiale”), Alfredo Giuliani e Cesare Garboli. Ho frequentato questi ultimi due assiduamente e proficuamente fra gli anni Settanta e Novanta.

Quale ritiene sia il modo più valido e corretto per accostarsi alla poesia contemporanea (e alla sua poesia) da parte di un giovane che passa dalla lettura della poesia alla scrittura?

Il modo più valido è leggere e rileggere quei poeti per i quali sentiamo una misteriosa chimica che li unisce a noi. Magari – come suggeriva Italo Calvino che ho conosciuto nei primissimi anni Ottanta – imparare a memoria qualche poesia. Beninteso, non per “imitarli” – che pure sarebbe cosa utile e preziosa – ma per trovare, attraverso di essi la nostra strada, la nostra “voce”. Poeti si nasce, certo, ma ancor più si diventa, quando si può.

Ritiene che la poesia contemporanea debba essere accessibile anche a un pubblico più vasto, oppure ritiene inevitabile il confino in una cerchia ristretta di lettori e critici?

Penso che la poesia abbia un suo ruolo specifico: quello che deve portare un poeta a essere assolutamente fedele al suo io, al suo dire in poesia. Sono convinto che solo questa fedeltà al proprio credo, al proprio io, possa allargare misteriosamente la cerchia dei nostri lettori. Quelli dotati di maggiore sensibilità sapranno sentire la “chiamata” personale, che li sa poi indirizzare verso un loro personale discernimento. La poesia non è sfogo, né chiacchiera, ma un intenso, assoluto calarsi dentro noi stessi per rinvenire quelle necessità profonde e l’immaginario del proprio dire poetico.

Ritiene che l’autore di poesia debba essere, nello stesso tempo, anche un critico, della propria e dell’altrui poesia, oppure ritiene che le due figure debbano rimanere distinte?

In ogni vero poeta c’è inevitabilmente anche un critico finissimo, che non è detto che debba essere soltanto un critico di professione (tipo docente o critico militante). Se è vero che in ogni vero poeta c’è anche un critico finissimo (pensi a grandi poeti come Baudelaire, Montale, Breton, Pessoa, ecc.), non è altrettanto scontato che dietro un critico ci debba essere un poeta.

Dal momento che lei è anche docente presso diverse Università statunitensi, come convive la figura del professore con quella del poeta?

Il mio rapporto (docente e poeta) si muove in una dimensione di continuo ampliamento e arricchimento del mio fare poesia; arricchimento che scaturisce, fra l’altro, proprio o anche dalla mia costante interazione di dialogo e apprendimento reciproco con i miei stessi studenti che, ovviamente, essendo più giovani di me, esercitano nel mio immaginario una funzione di ”aggiornamento” antropologico e culturale insieme.

Quale ritiene sia lo stato di salute della poesia italiana negli ultimi venti o trent’anni? Ci sono stati fenomeni e/o figure nuove che l’hanno colpita o che ritiene siano degne di attenzione?

Certamente dopo la contraddittoria fase neoavanguardistica degli anni Sessanta e Settanta, sterile e cerebrale sul piano tematico, ma ricca e stimolante sul piano dell’invenzione linguistica, credo che i poeti, i veri poeti, abbiamo man mano ritrovato una loro strada di maggiore autenticità espressiva, una propria voce, un loro stile. Pasolini diceva che su tutto si può barare tranne che con lo stile, ossia con il proprio profondo, forte sentire. Come mi è capitato di osservare in altre recenti occasioni, non credo al poeta/profeta. Credo però, e lo credo fortemente, in quei poeti che siano fedeli al proprio sentire ma anche sensibili ai guasti, alle ingiustizie, ai soprusi della nostra “civiltà”; poeti che sappiano coniugare coscienza civile e la propria ampiezza immaginativa, senza, insomma, che in loro venga mai meno la capacità di sorprendersi all’interno di quella cosa “buffa” e indecifrabile che è la vita.

Stony Brook, New York, aprile 2020