I dintorni
Il parco fuoriporta mi fa triste
come un nemico vinto da curare.
Più in là, come il passato, il mare quasi
non esiste – ma strega la città
increspando tovaglie tra i parcheggi
travestito da vento, da ricordo.Io resto a casa, mentre tu mi leggi
viaggiando per l’Europa: il solo accordo
rimasto nel mio mondo è sulla pagina,
il posto nuovo è quello che s’immagina
un cieco senza urtare negli ottusi
spigoli umani o nelle rotte dighe
di un senso dissipato in troppi rivoli –
e l’unica vacanza è tra le righe.
da: Cronaca senza storia, Elliot, Roma 2016, p. 59
Nato a Castelfranco Emilia nel 1979, Matteo Marchesini tra il 1999 e il 2003 ha gestito una piccola libreria e dal 1998 al 2010 ha collaborato a un annuario di poesia curato insieme a G. Manacorda e P. Febbraro. Già autore di libri per ragazzi, tra le sue pubblicazioni si ricordano: il libro di racconti intitolato Le donne spariscono in silenzio (2005), il ritratto-guida Perdersi a Bologna (2006), le poesie di Marcia nuziale (2009), le satire di Bologna in corsivo. Una città fatta a pezzi (2010), i saggi letterari Soli e civili (2012) e Da Pascoli a Busi. Letterati e letteratura in Italia (2014). Del 2013 è il suo primo romanzo Atti mancati, candidato al Premio Strega dello stesso anno, in cui emergono riflessioni sul romanzo come genere che può nascere solo da una scrittura in grado di affrontare la realtà, mentre è del 2017 la raccolta di tre romanzi brevi False coscienze. Tre parabole degli anni Zero. Attualmente collabora tra l’altro con Radio Radicale, «Il Foglio» e «Il Sole 24 Ore».
Quali sono stati i poeti più importanti nel suo apprendistato, quelli che nella sua formazione ritiene abbiano avuto un ruolo importante o quelli a cui le è capitato, agli inizi, di ispirarsi o con i quali ritiene di avere un qualche debito?
Da adolescente ho letto subito molta, forse troppa poesia italiana del secondo Novecento. Ma più che leggerla disinteressatamente l’ho presto usata come si usano le stampelle, per sostenere i miei primi versi che non stavano in piedi da soli. Agli incontri pubblici, nella Bologna degli anni Novanta, era quasi impossibile non imbattersi in poeti che imitavano Vittorio Sereni. Allusione privata, perentorietà reticente, stridore, farragine ritmica, dichiarazioni elegiache e un po’ generiche lasciate cadere con un’alzata di spalle ma in realtà molto godute. Con tutto il rispetto, non ho mai creduto al mito di Sereni, né agli interpreti che giustificano qualunque sua zeppa vedendovi una irrefutabile testimonianza dell’epoca. Eppure mi rimanevano addosso i suoi stilemi. Credo mi attirasse anche quello slancio eroico ed erotico, quell’epica frustrata ma sempre riaffiorante, che con tutt’altra musica si liberava invece in Roversi, nella cui libreria passavo ogni tanto i pomeriggi. E Roversi mi porta a Pasolini, letto precocemente, o meglio aperto e richiuso a intermittenza col fastidio di chi avverte una familiarità eccessiva. In questo senso, la sua opera mi è servita da autorizzazione a mostrare alcuni tratti che sentivo miei, giusti o sbagliati che fossero: il “letterario” come protesi quasi fisica, il manierismo versatile che convive con una monotona ossessione di fondo. La mia preferenza va comunque al Pasolini arido, senza speranze: quello di Petrolio e dei poemi in prosa luterani, o per stare ai versi quello del Frammento epistolare, al ragazzo Codignola, in qualche modo la sua A se stesso. C’era poi un altro motivo esistenziale, ugualmente narcisistico, che mi rendeva familiari i suoi abbozzi: la gioia di camminare per le strade del mondo come un re in incognito. Ma di questo motivo mi proponevano un’espressione meno inquinata da ragioni “pratiche” altri due poeti, le cui soluzioni liriche sono state all’inizio la stampella più naturale: Umberto Saba, coi suoi tentativi di rendere icastica una lingua usurata, e Sandro Penna, che ne schiva le zone prosastiche come in trance, trasformando ogni cosa che tocca in epigramma e in mito. Però mi piaceva anche leggere autori nei quali era meno forte il rapporto tra esistenza e stile: ad esempio Caproni, Gatto, Scialoja. Con questi autori non scattava l’identificazione, ma i loro virtuosismi servivano ad alimentare una spontanea esuberanza artigiana. Da questa esuberanza, in cui capire e parodiare fanno spesso tutt’uno, vengono tra l’altro certi miei ritratti mimetici in versi. A volte questi ritratti sono ritorsioni critiche: e qui è stata importante la scoperta di Fortini. Tra le koinè che si respiravano nell’aria vent’anni fa, e che come il serenismo nell’aria sono rimaste fino a oggi, ho invece considerato subito irricevibili la posa crepuscolare, la corazza autoironica di Giudici e la recita della senilità post-montaliana. In generale, non ho mai condiviso il canone che mette al centro Montale; e non intendo solo quello tardo ma anche quello, considerato maggiore, che tira il sasso dell’amuleto e nasconde la mano dietro amarezze vaghe da “c’intendiamo tra noi”. Semmai di Montale hanno contato le zone di cerniera tra le raccolte maggiori, le parti sature di Arsenio e Finisterre dove zoom e campi lunghi, pietre preziose e sfondo oratorio riescono a fondersi. Così come hanno contato le raccolte di passaggio nell’opera di Raboni, specie le straziate Canzonette mortali, allo stesso tempo fisiche e fantasmatiche come il Saba di Vecchio e giovane. Tra gli stranieri, Baudelaire a parte, ho amato soprattutto quegli autori che con la loro violenza e la loro limpidezza metaforica sembrano lacerare lo schermo della traduzione (Vallejo, József, Mandel’štam, in parte Yeats) e quelli il cui eclettismo virtuoso è messo rigorosamente al servizio del rem tene (Auden, o certo Brecht).
Ritiene che la poesia contemporanea debba essere accessibile anche a un pubblico più vasto, oppure ritiene inevitabile il confino in una cerchia ristretta di lettori e critici?
Mi sembrano questioni estrinseche. Per citare due vecchie sentenze moderne, che ne fanno una sola: ognuno rispetti il suo carattere, che è il suo genio, e diventi ciò che è. Ha senso chiedere alla Rosselli di essere Scotellaro (e viceversa)? Poi se qualcuno ha in sé il demone della seduzione oratoria, lo usi pure: con tutto si può fare poesia, basta che funzioni. Del resto la cerchia sarà presumibilmente sempre ristretta. Ma sia chiaro che non è sovrapponibile a una corporazione di “addetti ai lavori”. I veri poeti e i loro lettori somigliano un po’ alla chiesa invisibile. Non coincidono mai con le apparenze culturali e istituzionali; perciò appena li si difende in astratto, o in astratto si vuole “promuoverli”, in concreto ci si ritrova davanti delle caricature. Aggiungo che anche la cerchia visibile, nel suo senso proprio, non esiste più dagli anni ’50-’60: presupponeva un terreno comune di discussione che da allora è sparito. Pasolini e Sanguineti avevano un linguaggio per litigare, noi no. Oggi certi poeti si rivolgono ad altri come un ingegnere si rivolgerebbe a un neurochirurgo, con l’aggravante che non riconoscono la “disciplina” a loro “estranea”. E quando fingono di avere un linguaggio condiviso, questo linguaggio si rivela un gergo convenzionale sotto cui scorrono esperienze incommensurabili. Prenderne atto può essere salutare. Ma è difficile, perché la finzione della cerchia aiuta a costruirsi un’identità di comodo. L’ansia di essere riconosciuti rende i letterati molto meno liberi e lucidi di un ideale lettore comune che non abbia nessuna identità da difendere e affermare. In questo campo, poi, la socializzazione è più che mai spiacevole, dato che l’arte non è quasi mai immediatamente socializzabile. E non perché parli a una determinata élite, ma perché anche se dice qualcosa sull’esperienza di un vasto gruppo di persone, quel qualcosa riguarda ogni essere umano del gruppo preso per sé, non gli uomini e le donne riuniti insieme. Qualunque collettivo, per preservarsi e trovare un linguaggio di scambio che sia sopportabile, è infatti costretto a sacrificare proprio le verità di cui l’arte si occupa. Ultima nota. La poesia è naturalmente antimoderna, come aveva visto subito Leopardi. Questo tratto le concede più libertà di altri generi, davanti alla società e alla storia, ma al tempo stesso la spinge verso l’irrilevanza e l’arbitrio. Perciò ogni populismo poetico finisce nel grottesco: fa pensare a un rudimentale bastone brandito contro i droni mediatici. Le poesie che reggono davvero, pochi o molti lettori che abbiano, dovrebbero invece restituire un maggior senso di realtà, rimuovendo dalla percezione ciò che di irreale ci impone la nostra vita di animali sociali – oggi anche senza la “i” – quotidianamente obbligati a strumentalizzare il linguaggio e l’esperienza. La poesia non fa succedere niente, diceva Auden – ma succede.
Quali potrebbero essere secondo lei le conseguenze sullo statuto del testo poetico generate dai nuovi strumenti di diffusione e fruizione della poesia (internet, litblog, facebook, twitter ecc.)?
Sono mezzi che in apparenza sembrano favorire la concentrazione formale, la capacità metaforica e aforistica. Non solo in apparenza: probabilmente alcune buone cose che si leggono in questi anni, come capita, sono nate insieme all’idea di diffonderle sul web. E gli studiosi già aggiungono nuove stanze all’enorme biblioteca novecentesca dedicata alle affinità tra avanguardie e media, tra rarefazioni poetiche e pubblicitarie. Ma la rete e i social evidenziano o accelerano anche dei fenomeni deprimenti. Ad esempio, ora che la letteratura è meno importante nella cultura generale, e la poesia è un isolotto periferico nella letteratura, ciò che si chiede ai versi è soprattutto di essere decorazione, aroma, o risorsa autopromozionale. Basta scorrere una pagina Facebook piena di post di lettori per vedere quanto vi siano esaltati, in un circolo vizioso con editoria e stampa, i testi di autori che più che la poesia offrono il suo fantasma retorico. È un fantasma utilizzabile da chi, aprendo un libro di liriche, vuole subito specchiarsi negli stereotipi estetici correnti, per poi magari trascrivere in rubriche private o social una saggezza o uno strazio generici quanto perentori, e sublimati dalla presunta autorevolezza della firma (indicative le orrende poesie di attualità 2020, che data l’emergenza biologica portano al parossismo la retorica sul corpo, inquadrato mentre svolge esercizi domestici come se fossero riti di purificazione). Altro circolo vizioso: il dilagare di quelli che chiamerei i Catalano di fascia alta, o per citare un’espressione ormai utilizzabile solo tra molte virgolette, dei Catalano fatti apposta per piacere al ceto medio riflessivo che da almeno quarant’anni tratta come status symbol i prodotti promossi dagli inserti culturali. Anche i “lettori forti” vogliono specchiarsi nella loro immagine: forse, anzi, soprattutto in questo senso possono definirsi riflessivi. Nella bolla dei letterati trionfano i finti versi di autori “d’essai” a cui piace puntare sulla pura trovata o sulla pura goliardia, ridurre la poesia allo scheletro di un’arguzia che però si vuole solenne, o a quei rifacimenti parodici della secolare tradizione italiana che un tempo sarebbero rimasti chiusi nei quaderni dei notabili con un buon liceo alle spalle. Ancora. Non da oggi, più che essere letti i poeti sono sfruttati come miti biografici o suggeritori di epigrafi. Li si loda con un gesto che in realtà equivale a un “giocate in cortile e non disturbate il manovratore”: si ripete quanto sono sublimi, a patto che quando si fanno sondaggi sugli scrittori non pretendano di poter stare sul piano dei più mediocri romanzieri. Anche questo è più evidente, nel regime mediatico attuale. Infine, questo regime rende più chiaro un altro aspetto. In assenza di una società letteraria, e di un diffuso dibattito critico, ognuno è libero di raccontarsela e di cantarsela, oltre che di raccontare e di cantare, e adesso il frastuono è così forte da ottundere la percezione. Il bicchiere mezzo pieno lo si può vedere nel fatto che il re è nudo: non si crede più davvero alla chiesa visibile ma falsa degli editori e dei centri di cultura blasonati, che fino all’inizio del secolo, siccome si doveva comunque passare dal loro filtro, pretendevano di avere ancora l’antica autorevolezza mentre ormai accoglievano passivamente le voci del giorno come un salotto di Vespa. Il bicchiere mezzo vuoto sta però nel fatto che non essendoci vere alternative, cioè alternative sufficientemente riconosciute, a quella falsa nobiltà si crede ancora in malafede, nel senso in cui usava la parola Nicola Chiaromonte. Nel disorientamento, ci si attacca al potere di produrre fatti, per quanto quelli letterari abbiano un peso sempre più trascurabile. Si è accresciuta l’ansia di riconoscimenti, e molti hanno l’impressione di non esistere se non vengono toccati da un piccolo o grande successo determinato dalla pura forza delle cose.
Ritiene che l’autore di poesia debba essere, nello stesso tempo, anche un critico, della propria e dell’altrui poesia, oppure ritiene che le due figure debbano rimanere distinte?
Un critico, se è tale, non è un recensore e non è un arbitro. È uno scrittore che parla di opere d’arte e attraverso le opere d’arte del mondo. Nelle sue pagine le argomentazioni e la sensibilità devono unirsi a una serie di idee-forza sulla realtà circostante, e fare “organismo”. Esistono autori a vocazione critica, o autori che insieme ad altri generi praticano anche quello della critica e magari più in generale del saggio. Ma tutti gli scrittori, quando sono scrittori, contengono in sé stessi un critico implicito. Tuttavia, il fatto che nelle generazioni successive a quella di Raboni e Sanguineti il poeta dalla vocazione critica esplicita sia quasi scomparso, ci dice qualcosa anche sull’indebolimento del critico implicito, che comporta un indebolimento della poesia. Crescono invece, mi pare, i letterati che accumulano studi sulla poesia come se fosse un “settore” di cui si può essere specialisti allo stesso modo in cui lo si è di ingegneria edile: cioè in un modo non congruo con l’oggetto, e dunque acritico. Spesso questi studiosi scrivono versi che rivelano lo stesso equivoco.
Trova qualche affinità tra la sua poetica e quella di qualche altro poeta contemporaneo? Esiste, secondo lei, qualche tratto comune o qualche elemento utile a tracciare un insieme di poeti contemporanei nel quale inscriverebbe anche la sua produzione in versi?
Mi è più facile – Montale si vendica – dire ciò che non voglio, o di cui sospetto: la poesia “narrativa”, anche abile, che però potrebbe ugualmente essere scritta in prosa, e sul fronte opposto i neo-orfismi o i presunti sperimentalismi dai risultati veteronovecenteschi. Di solito i prodotti di questi filoni fanno troppo poco attrito con ciò che sta attorno al testo. Si ha l’impressione che potrebbero avere qualunque forma e lunghezza, che ogni loro passo sia sostituibile; che insomma, per dirla fortinianamente, abbiano ragione sempre perché non hanno ragione mai. Anziché le riuscite vere e i veri errori, prevalgono in questi casi i fantasmi testuali di cui non si può dire che siano belli o brutti, perché “mai non fur vivi”. Sospetto, in generale, di chi confonde lo stile con la stilizzazione e confida che la legittimità della sua poesia possa venire assicurata da qualche apriori. In tempi in cui si è divisi tra il codice per tutti e per nessuno dei media e i gerghi specialistici o semiprivati, un testo difficilmente regge se pretende di rimandare a un piedistallo esterno, al certificato di autorità ormai non più credute: deve portare le proprie giustificazioni in sé stesso. Forse per questo apprezzo alcuni autori che compongono una poesia architettonica, fortemente sintattica. La sintassi è infatti un “piedistallo interno”, è il luogo dove s’incontrano e si dispongono gerarchicamente i vari livelli della scrittura. Cerco istintivamente una lirica in cui il concreto e l’astratto ribattano plasticamente l’uno sull’altro, senza scarti e aloni, come il recto e il verso di uno stesso foglio; una lirica tutta presente anziché allusivamente elegiaca, ma ricca e stratificata, capace di tendere la lingua comune al massimo delle sue possibilità di significazione. Stimo molto, ad esempio, Paolo Febbraro, Umberto Fiori, e Paolo Maccari, che sento vicino anche in quella sua furia arresa, nel suo rifiuto caparbio di accettare consolazioni mentre avanza in una terra di nessuno. Penso a una poesia armata ma non corazzata, al limite a un nudo “ragionare immaginando”: se posso usare un aggettivo eccessivo, a una poesia leopardiana, nel senso del Leopardi al quale lungo due secoli si è costantemente cercato di amputare un pezzo. Lo si è fatto per le più varie ragioni ideologiche, ma anche per una ideologia della forma che avverte il suo ragionare come impoetico. Abbiamo in proposito le confessioni del giovane Montale e della Valduga; ma ne avremmo parecchie altre, se il medio letterato italiano non le reprimesse per soggezione scolastica.
Leggendo Cronaca senza storia ho avvertito la presenza di un “paradigma proustiano”, una sorta di prisma che scompone l’autobiografia in mille facce, creando in tal modo un labirinto inestricabile di rappresentazioni nel quale l’autore arriva talora a sfiorare un compiacimento barocco (come nella corona di sonetti della sezione finale, La seconda attesa che ritengo il vertice di una notevole “maestria”). Si riconosce in questa definizione?
Non so se in quel poemetto-a-sonetti del 2006 c’è “maestria”, ma la ringrazio. Sentivo un bisogno di compattezza, di saturazione. Il tema era afoso, e si diramava in pensieri sinuosamente ossessivi. Quando ho usato il sonetto, o vi ho alluso, ho cercato di non farlo mai in modo puramente parassitario (l’iper-parodia è ormai frusta) ma al tempo stesso di non fingere che si possa recuperare con innocenza. Mi riconosco nel tema dell’identità che si scompone – anche quella della poesia. Per me Proust è stato importante appunto per come tratta l’identità, la consistenza del soggetto e del mondo che lo circonda. Di solito i romanzieri, anche i più estremisti, portano gli equivoci intorno a questi poli a uno scioglimento: o si rivela una certezza solida, inconfutabile, oppure l’incertezza assurge a segno di una metafisica, arcana indecifrabilità, cioè in fondo si trasforma in un’altra certezza, seppure di segno negativo. L’autore della Recherche, invece, dimostra che l’equivoco è la sostanza stessa, la stoffa onirica e fantastica di cui è fatta la pretesa identità di ognuno: una sagoma destinata inevitabilmente a variare a seconda delle luci che il luogo, ma soprattutto il tempo, l’immaginazione e i sentimenti personali o collettivi le proiettano sopra. L’ambiguità, in questo senso, è senza fine. Il che riguarda anche i sentimenti: la gelosia, ad esempio, stabilisce ragnatele finissime, e non si sa mai se abbia occhi straordinariamente acuti o se straveda. Davanti ai suoi attacchi, diceva Proust, siamo indifesi come davanti alla malattia e alla morte. È il tema di quella suite. Più in generale, molte mie poesie rappresentano una dialettica tra possesso e abbandono, una lotta esistenziale in cui si pietrifica o si è pietrificati. Non resta che far torto o patirlo, sembra, non solo nella Storia ma in camera da letto. E forse è questo leitmotiv ad ancorarmi alle pieghe e ai turgori di una sintassi che non è se non la proiezione, l’ombra del campo di forze di cui prova a descrivere la forma.
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