Invocazione alla morte

Fammi
chiudere forte gli occhi.
Quietami le braccia,
fammi
essere.
Poi,
vieni!
Fa’ che io sia tutto solo:
fa’ che la terribile conoscenza che viene
col pensiero della Morte
non mi disturbi.
Il tuo amore non è abbastanza forte da trattenermi.

La morte  porta via le cose:
li ho tutti qui, in mano,
i miei stracci.

Non capisco il cosmico humor
che lascia vivere sciocche impossibilità, come me.

Ho rovinato tutto,
ma non devo nulla a nessuno.

È la brama di un uomo agitato,
che brama la pace,
è la curiosità per una parola:
eternità.

Se almeno Lei venisse senza far rumore,
come una signora –
la prima signora e l’ultima.

Tanto per non sentire più
il rumore che monta dalle strade al mattino,
né il cinguettio disperato di due passeri;
tanto per non temere più
la padrona di casa

Invocation to Death

Let me
Close my eyes tight.
Still my arms,
Let me
Be.
Then,
Come!
Let me be utterly alone:
Do not let the awful uinderstanding that comes with
The thought of Death
Bother me.
Your love was not strong enough to hold me.

Death takes things away:
I have them here in my hands,
The rags.

I do not understand the cosmic humor
that let follish impossibilities, like me, live.

I have made a mess of it,
But I am no debtor.

It’s the yearning of a nervous man,
The yearning for a peace,
The curiosity for a word:
Forever.

If She would only come quietly,
like a lady –
The first lady and the last.

Just not to hear any longer
the noise swelling from the morning streets,
Nor the two desperate sparrow chirruping;
the landlady

Dicembre 1921

da: Il primo dio, Adelphi, Milano 2011, p. 220-222

 

Manuel Federico Carlo Carnevali ha in comune con Pascal D’Angelo (a cui abbiamo dedicato un precedente post) solo il fatto di assere sbarcato giovanissimo a New York (Pascal ci era arrivato nel 1910, mentre Manuel vi approdò quattro anni più tardi) e avere appreso una lingua da zero attraverso un durissimo apprendistato (la misera vita dell’emigrante che deve arrangiarsi con i mestieri più umili e faticosi) e, successivamente, avere cominciato a scrivere poesie in quella nuova lingua. Una ultima cosa accomuna i due poeti: il loro fallimento umano ed esistenziale. Pascal, di poco più vecchio (era nato nel 1894), morì nella più assoluta miseria nel 1932. Manuel invece morì nel 1942 nella clinica neurologica di Bologna, soffocato da un boccone di pane, al termine di una triste sequela di ricoveri a partire dal 1922 quando, tornato in Italia, gli venne diagnosticata per la prima volta un’encefalite letargica. Per tutto il resto (estrazione sociale, carattere e temperamento) erano agli antipodi: il primo era nato nella frazione di Antrodoco, un piccolo paese abruzzese, in una misera famiglia di contadini, costretto a emigrare dalla necessità, per sfuggire a quella atavica miseria a cui lo condannavano le sue origini. Invece per Emanuel quella di emigrare fu una scelta. Come racconta lui stesso nel suo romanzo Il primo dio, scritto in inglese e tradotto in italiano dalla sorellastra Maria Pia (figlia di suo padre e della nuova moglie) decise di emigrare negli Stati Uniti nel 1914, a soli 16 anni per via dei continui litigi con il padre. Emanuel partì da Genova sul Caserta il 17 marzo 1914 e arrivò a New York il 5 aprile.

Era nato a Firenze nel 1897, da Tullio Carnevali, ragioniere-capo di prefettura, e da Matilde Piano, originaria di Torino. Emanuel, Em o Manolo, come veniva chiamato, nacque dopo che i genitori si erano separati; dopo l’infanzia trascorsa tra Pistoia, Biella e Cossato e dopo la morte della madre (1908), venne messo in collegio dal padre che, risposatosi, volle che raggiungesse la nuova famiglia a Bologna. Nel 1911 Emanuel vinse una borsa di studio del Collegio Marco Foscarini di Venezia e vi trascorse quasi due anni, prima di esserne espulso. Nel 1913 si iscrisse all’Istituto Tecnico “Pier Crescenzi” di Bologna ma l’anno successivo, a sedici anni, decise di partire per gli Stati Uniti. Fino al 1922 visse tra New York e Chicago, all’inizio senza conoscere una sola parola d’inglese ed esercitando lavori saltuari: lavapiatti, garzone di drogheria, cameriere, pulitore di pavimenti, spalatore di neve ecc., e soffrendo fame, abbietta miseria e privazioni di ogni sorta. Col tempo imparò la lingua (leggendo le insegne commerciali di New York), cominciò a scrivere e ad inviare i suoi versi a tutte le riviste che conosceva. Inizialmente rifiutate, le sue poesie cominciarono man mano ad essere pubblicate ed Emanuel a farsi conoscere nell’ambiente letterario, diventando amico di diversi poeti, tra cui Max Eastman (1883-1969), Ezra Pound, Robert McAlmon (1896-1956), e William Carlos Williams, il quale, in un suo scritto autobiografico, così lo ricorda:

«Emanuel Carnevali e sua moglie, Emily, vivevano in una stanza nei pressi della Tenth Avenue, che si affacciava sui depositi di merci della 40th Street, quando invitarono Flossie e me a mangiare polenta e baccalà. Erano ancora due ragazzi, lei una giovane donna cui era capitato di vivere dall’altra parte del corridoio di un qualche posto dove lui abitava. Non era colta. Lui era diritto, magro, con una bella testa di giovane, dall’intelligenza penetrante – ovviamente un’anima perduta (..) ed eccoli qui, a New York, decisi a spuntarla, non a far soldi però. Erano New York al meglio di sé, il potenziale più alto ma che non potevi vedere senza sentirti un nodo in gola, sapendolo destinato quasi con certezza alla distruzione.» (Op. cit., p. 385).

Il suo carattere scontroso e irrequieto, insieme a un precario equilibrio psichico, lo condannarono a una posizione di assoluta marginalità. La sua morte per soffocamento da un boccone di pane nel nosocomio bolognese può essere considerata il suggello a tutta la sua tormentata esistenza. La sua fama di “poeta maledetto” e ciò che è rimasto, insieme alle sue poesie, a una autobiografia e ad alcuni racconti di carattere autobiografico.