Essere vivi

Essere vivi
essere vivi ora
vuol dire avere sete
essere abbagliati dal sole fra gli alberi
ricordare all’improvviso una melodia
starnutire
tenerti per mano

essere vivi
essere vivi ora
vuol dire minigonna
un planetario
Johann Strauss
Picasso
le Alpi
vuol dire imbattersi in tutte le cose belle
e poi
essere attenti e opporsi al male che vi si nasconde

essere vivi
essere vivi ora
vuol dire poter piangere
poter ridere
potersi arrabbiare
vuol dire libertà

essere vivi
essere vivi ora
vuol dire un cane che abbaia in lontananza ora
la terra che sta girando ora
da qualche parte il primo vagito che si alza ora
da qualche parte un soldato ferito ora
è un’altalena che dondola ora
è l’ora che passa ora

essere vivi
essere vivi ora
vuol dire il battito d’ali degli uccelli
vuol dire gente che ama
il tepore della tua mano
vuol dire vita

1971

da Poeti giapponesi, Einaudi, Torino 2020, traduzione di Maria Teresa Orsi, pp. 31-33

Coetaneo dell’altrettanto famoso poeta Ōoka Makoto, essendo nato anche lui nel 1931, Tanikawa Shuntarō, insieme al più giovane Yoshimasu Gōzō (n. nel 1939), rappresenta la poesia giapponese nell’arena della poesia contemporanea mondiale (sono i tre poeti giapponesi più tradotti e più frequentemente invitati negli incontri internazionali di poesia). Tanikawa era figlio unico di Tetzuzō, filosofo e accademico che tradusse Simmel e Goethe (la madre, diplomata al conservatorio, riversò tutte le sue cure e le sue attenzioni all’educazione del figlio, il quale tuttavia detestava le autorità scolastiche e riuscì a malapena a diplomarsi) . Nel 1952 con la sua silloge Una solitudine di due miliardi di anni luce aveva aperto la strada di una nouvelle vague. Insieme all’amico Ōoka Makoto fondò  la rivista «Kai», attorno alla quale si raccoglieranno alcuni tra i poeti più brillanti della generazione del dopoguerra. Scrive Maria Teresa Orsi «Il messaggio di questa nouvelle vague, in sostanza, si fondava su una diversa coscienza e sensibilità, insistendo sull’importanza di instaurare i “diritti individuali del poeta” attraverso il linguaggio» (Op. cit.. p. VII).  Pierantonio Zanotti ha scritto in Introduzione alla storia della poesia giapponese (vol. 2, Marsilio, Venezia 2013, versione elettronica, p. 265): «Tanikawa fu poeta sperimentale, ma relativamente accessibile, engagé, ma non troppo, avanguardista, ma anche, a modo suo, spettacolare». Tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta appoggiò le proteste contro il rinnovo del Trattato di sicurezza nippo-americano e contro altre politiche del partito liberaldemocratico al potere. Ma, come giustamente sostiene Zanotti, «Tanikawa fu innnanzitutto un professionista della parola, attitudine in parte giustificata dalla rielaborazione della vulgata (post-)strutturalista ed ermeneutica in voga negli anni settanta e ottanta a proposito della concezione del linguaggio. Nella sua ricerca è presente un’esplorazione costante degli usi e dei limiti del linguaggio, e questo spiega la sua produzione di poesie e di racconti per l’infanzia, le traduzioni dei Peanuts di Charles M. Schulz e di Moother Goose, i testi composti per le sigle delle anime tratte dai manga di Tezuka Osamu, le sceneggiature televisive e le collaborazioni con il mondo del teatro» (Op. cit., p. 266). Lo stesso poeta, in una poesia del 2006, scrisse su di sé: «Ho vissuto talmente in balia delle parole / che ad essere sincero preferisco quando si sta in silenzio» (in Poeti giapponesi, op. cit., p. 335). La poesia citata è la migliore dimostrazione di quanto ha scritto Alessandro Clementi degli Albizzi: «Tanikawa ha modo così di puntare lontano lo sguardo, sviluppando in autonomia una riflessione quasi cosmologica su un essere umano abbandonato nel contesto di una natura immensamente più grande di lui e che sfugge di continuo a qualsiasi possibile definizione» (Ibidem).