La poesia è un miele che il poeta,
in casta cera e cella di rinuncia,
per sé si fa e pei fratelli in via;
e senza tregua l’armonia annuncia
mentre discorde sputa amaro il mondo.
Da quanto andar in cerca d’ogni parte,
in quanti fiori sosta, e va profondo
come l’ape il poeta!
L’ultime cose accoglie perché sian prime;
nettare, dolorando, dolce esprime,
che al ciel sia vita mentre è quaggiù sol arte.
Così porta bontà verso le cime,
onde in bellezza ognun scorga la mèta
che il Signor serba a chi fallendo asseta.

15 ottobre 1955

tratta da: Canti dell’infermità, Scheiwiller, Milano 1956

 

Ha scritto Clemente Rebora: “La poesia è uno scoprire e stabilire convenienze e richiami e concordanze tra il Cielo e la terra e in noi e tra noi”. La lirica in questione esemplifica questo concetto utilizzando l’antica metafora del poeta-ape che realizza il miele-poesia. Precede di due anni la scomparsa del poeta milanese (avvenuta nel 1957 a Stresa). È inclusa in Canti dell’infermità raccolta pubblicata per i tipi della Scheiwiller nel 1957, ultima uscita con la supervisione dell’autore, il quale da tempo soffriva di un malore cerebrale che si era manifestato per la prima volta nel dicembre del 1952. Abbiamo dedicato un precedente articolo a uno dei più celebri Frammenti lirici,  il frammento XLIX. Queste due poesie possono quindi essere considerate il punto di partenza e il punto di arrivo di una riflessione sulla poesia stessa. Nel mezzo c’era stata la partecipazione alla Prima guerra mondiale (venne richiamato alle armi con il grado di sottotenente nel 72º reggimento fanteria e nel dicembre dello stesso anno combatté sul Podgora, dove subì un forte trauma cranico a causa di un’esplosione e, ricoverato e tra il 1916 e il 1919, passò da un ospedale militare all’altro finché, nel 1919, venne riformato con la diagnosi di infermità mentale). Dopo la guerra riprende l’attività di insegnante presso scuole private che aveva cominciato prima della guerra. Nel 22 pubblica Canti anonimi, una raccolta nella quale confluiscono gli echi dell’esperienza in guerra e nelle quali, come testimonia anche l’epigrafe (“queste liriche appartengono a una condizione / che imprigionava nell’individuo quella / speranza la quale sta liberandosi in una / certezza di bontà operosa, verso un’azione di / fede nel mondo. Esse ne sono testimonio e pegno / di assoluzione”) è avvertibile quell’inquietudine che porterà l’autore, nel 1928, alla conversione e alla scelta, di poco successiva, di prendere i voti (1930).
Dopo la conversione la poesia reboriana subirà una decisa virata verso temi di carattere religioso e, più in generale, risulta subalterna al sacerdozio e alla sincera vocazione che aveva animato quella scelta. Dal punto di vista stilistico è appena avvertibile, confinata in alcuni brevi passaggi, quella tensione che aveva animato la sua precedente produzione in versi. Sono lampi che illuminano per pochi istanti poesie, che altrimenti sarebbero ridotte a una mera testimonianza di quella fede che era diventata la ragione di vita dell’autore, come lui stesso aveva dichiarato (“Far poesia è diventato per me, più che mai, modo concreto di amar Dio e i fratelli” dichiarava nei Pensieri). La rinuncia all’arte (“Lungi da me la scappatoia dell’arte / per fuggire la stretta via che salva!” scriveva nei Pensieri) era stata perentoria ed esplicita. Non è questa la sede per una valutazione della poesia reboriana prima e dopo la conversione. Torniamo, invece, alla poesia citata, che, alla luce di quanto detto, appare una sorta di testamento poetico: non solo perché scritta in limine mortis, ma anche perché idealmente si ricollega al frammento XLIX dal quale eravamo partiti e, chiudendo il cerchio, tenta di abbozzare una risposta a una domanda che l’autore si era portato dietro per tutta la vita relative alle ragioni più profonde, all’essenza e all’identità della poesia nel mondo contemporaneo. Se paragonate nella loro forma, la seconda appare decisamente più tradizionale. Il suo linguaggio è prossimo a quello di un componimento d’occasione (seppure di eccellente fattura) e lo schema metrico ricalca quello del sonetto. Quegli scarti linguistici, quelle forzature della sintassi che avevano caratterizzato i Frammenti lirici sono stati rimossi. Tuttavia si possono ancora scorgere le tracce di quell’inquietudine del giovane e irruento autore dei Frammenti: l’inconciliabile dissidio tra il poeta e il mondo è un dato che non è stato possibile obliterare (infatti è il poeta colui che “senza tregua l’armonia annuncia / mentre discorde sputa amaro il mondo”). La scelta del sacerdozio evidentemente è legata anche a questa profonda inquietudine. “Terrore della vita, presenza di Dio” – così Rebora definiva la poesia nel frammento XLIX, un vuoto immenso nel quale il poeta si cala in cerca di riposte a quelle domande che lo perseguiteranno per tutta la vita. Ma se c’è un punto fermo in questa vicenda umana e letteraria è l’obliterazione dell’io, implicita nei Frammenti ed esplicita nei Canti dell’infermità (“Se il sole splende fuor senza Te dentro, / tutto finisce in cupa nebbia spento. / Orrore disperato, Gesù mio, / trovarsi in fin d’aver cantato l’io!” – scriveva nel Preludio alla citata raccolta). Il rifiuto di ogni possibile forma di autocelebrazione è una parte essenziale della vicenda intellettuale e umana di Clemente Rebora. La sua poesia è stata lo specchio fedele dell’anima, delle sue inquietudini, delle paure e delle angosce, mai una maniera, uno stilema avulso dall’autore o un accidente puramente estetico.