L’ultimo verso
Dentro gli occhi chiusi
quando vi cadde il sole
si accese un puntolino nero.
E non per vizio voleva
tenerselo l’informe
e dentro trattenerlo
nel cieco addome
divenuto sua patria.
Per non lasciarlo morire davvero
e insepolto, quell’ultimo verso
lo adottò, quell’inutile eroe.
Aurea muffa dell’estinto mattino
aerea tigna, polverosa carcassa
nocciolina che sgusci tra le dita
e, se si è presi, fedele capsula.
Da: La pianta del pane, Mondadori, Milano 2003, p. 23
A proposito di questa silloge della poetessa romana, Scrive Francesco vinci: «La pianta del pane è il libro di un poeta che – nonostante le aperture effusive e un calcolato abbassamento di guardie stilistiche – continua sostanzialmente a puntare sulla ricerca di una lingua perfetta. (..) E, tuttavia, rispetto ai titoli precedenti, il demone dei registri cangianti, dell’elaborazione timbrica e del virtuosismo manieristico sembra cedere il passo a un testimone emotivamente più partecipe, votato a uno sguardo più essenziale che architettonico» (in Poesia 2004. Annuario, p. 275). La critica unanimemente assegna La pianta del pane a un “terzo tempo” della sua produzione in versi, caratterizzato da un enunciato più trasparente ed essenziale. É l’autrice, ormai una voce affermata nel panorama della poesia italiana (e anche nella vita accademica), a dichiararlo nella poesia che apre il ciclo La testa leggera: «Mio marito diffida delle cose oscure. / Così, per amor suo, io cambierò stile / e per lui terrò in serbo cose chiare.» (Ibidem. p. 13). In merito a questa fase della scrittura in versi della poetessa romana, Scrive Marco Corsi in Biancamaria Frabotta. I nodi violati del verso: «la parola poetica, talvolta armata di strategie retoriche eppure disadorna (..) sgorga a ridosso dell’emozione, configurandosi come portatrice di un mistero profondo quale quello dell’ispirazione» (Archetipolibri, Bologna 2010, pp. 139-140). Le questioni di metapoetica, sollevate dalla lirica in questione, trovandosi nell’intersezione tra uno scoperto autobiografismo e l’enunciato (meta)poetico, rappresentano il primo scoglio in cui si imbatte l’autrice e non a caso sono abbozzate nella lirica che apre e dà il titolo alla raccolta (/../é la mia pianta del pane / questo futile idioma / di notti indaffarate /a contarsi, a coprirsi. / Questo pallido / vulnerabile seme / che ci alligna dentro / e di noi si nutre / questa infestante / gramigna festosa.). L’indecifrabile mistero della creazione poetica è ciò a cui si lega, in prima battuta, quella “emozione” di cui parla Marco Corsi.
Nella lirica in questione, nella quale possiamo facilmente individuare due metà, distinte chiaramente da una diversa dinamica del verso, (nella prima parte predominano versi brevi, mentre nella successiva prevale l’endecasillabo) mostra un’impronta narrativa piuttosto trasparente. Nella dinamica luce/buio della parte iniziale si possono facilmente scorgere allusioni alla fecondazione (ma anche alla notte), mentre nella successiva il sottinteso riferimento è alla nascita (ma anche al giorno). Da notare anche la tensione dinamica che si crea tra la mancanza di simmetria compositiva della prima parte (il caos) e l’ordine metrico della successiva (l’ordine) che rendono il componimento in questione, incardinato sull’antitesi, un piccolo gioiello anche dal punto di vista della forma.
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