Preghiera

Poiché è necessario
mi metterò nei panni
del credente e praticante
Farò le mie abluzioni
– le maggiori più che le minori –
prima di stendere sulla scrivania
il mio tappeto da preghiera
Reciterò senza il minimo lapsus
la professione di fede
ed eseguirò il numero canonico
di genuflessioni
Mi svuoterò
del fardello del mondo
aggiunto a quello della vita
reale o presunta
mi alleggerirò dei tormenti
fino a pesare meno
del più insignificante degli insetti
Mi umilierò
in tutta coscienza
con una specie di gioia malsana
Tutto ciò per implorare una dea pagana
che si fa chiamare Poesia
e per chiederle cosa?
Di aiutarmi a vincere
questa ossessione
dell’indecenza e del ridicolo
che mi afferra
ogni volta che mi appresto
a celebrare il suo culto
seduto o in piedi
davanti al mio foglio da preghiera

da: Sul filo della speranza, a cura di Carolina Paolicchi, Astarte edizioni, Pisa 2020, pp. 27-29.

Nato a Fès nel 1942, Abdellatif Laâbi rappresenta una delle figure più interessanti della letteratura francofona del Maghreb insieme all’algerino Jean Sénac (nato quindici anni prima, nel 1927). Quando il suo paese ottenne l’indipendenza, nel 1956, aveva quattordici anni. A differenza dell’Algeria, in Marocco la fine del protettorato francese fu un passaggio di consegne ordinato e concordato, senza spargimento di sangue, a conclusione di un processo che si concluse con il ritorno in patria di Muhammad V, che verrà riconosciuto re l’anno successivo. Con la sua morte improvvisa e l’ascesa al trono del figlio Hassan II, nel 1961, ci fu un cambio radicale. Le riforme democratiche avviate dal padre prematuramente scomparso vennero rinnegate dal figlio, che preferì promuovere un regime autoritario. All’epoca diciannovenne, Abdellatif studia letteratura francese all’università di Rabat. Nel 1963 fonda insieme ad altri studenti un teatro universitario marocchino (in seguito sarà lui stesso, a partire dal 1987, autore di teatro). Terminati gli studi, insegna francese a Rabat. Nel 1965 cominciarono le repressioni sistematiche di ogni forma di dissenso, che colpirono specialmente i militanti dei partiti di sinistra. Ciò malgrado, l’anno successivo Abdellatif fondò la rivista francofona «Souffles», che divenne un importante punto di riferimento nella vita culturale del Marocco in quegli anni. nel 1972 la rivista venne chiusa d’autorità e Abdellatif  venne arrestato e condannato a dieci anni di carcere a causa della sua militanza nei partiti di sinistra messi al bando dal regime. Rimase in carcere fino al 1980, quando venne scarcerato grazie a una campagna internazionale. In quello stesso anno pubblicò in Francia Le Règne de barbarie, la sua prima raccolta di poesia (aveva già esordito come romanziere prima del suo arresto, nel 1969). Nel 1985 si trasferì in un esilio volontario in Francia, dove aveva pubblicato altre due raccolte di poesia e un nuovo romanzo. Cominciava ad essere un autore noto e premiato (in quello stesso anno fu nominato Commendatore dell’ordine delle arti e delle lettere) anche nel paese d’adozione. Nel 2009, a coronamento della sua creazione letteraria focalizzata sulla poesia (ma che si è sviluppata in ogni genere, dal teatro al romanzo, dalla saggistica alla memorialistica) ha ricevuto, primo marocchino, il prix Goncourt, il riconoscimento più prestigioso per la poesia in Francia. Con oltre quindici raccolte di versi all’attivo, Laâbi è diventato nel tempo una figura di spicco nel panorama delle lettere nel suo paese d’adozione.

La lirica citata è tratta da Sul filo della speranza, silloge del 2018 nella quale l’autore segue il percorso già tracciato nelle sue precedenti raccolte. «Laâbi si interroga ancora sull’umanità, racconta se stesso e il mondo, osserva e tenta di comprendere la sofferenza e le contraddizioni umane, cerca di apportare il suo contributo all’edificio dell’umanità. Le parole del poeta si rivolgono all’umanità intera e riguardano ogni individuo, senza limiti di frontiere o culture. Il suo sguardo ironico e profondo, intimo e universale, si posa su un’umanità ferita, che ha bisogno della poesia per ritrovarsi, e per ritrovare la speranza» scrive Carolina Parolicchi nella prefazione alla traduzione. Sostanzialmente è una riflessione sulla poesia attraverso una interessante (ancorché ironicamente provocatoria) analogia con la preghiera, così come praticata nell’Islam. Ne risulta un curioso accostamento nel quale l’autore ci invita a riflettere sia sullo statuto della poesia che su quello della religione. La poesia di Laâbi, così come quasi tutta quella del Maghreb francofono, è essenzialmente engagée, cosa a cui non è estranea la scelta di scrivere in francese, la lingua del colonizzatore. Tuttavia gli autori marocchini francofoni, come Laâbi o il ben più noto Tahar Ben Jelloun, rispetto ai loro colleghi algerini risultano un po’ più lirici e introspettivi e un po’ meno enfatici (e forse anche un po’ meno retorici), anche perché nel caso del Marocco il divorzio con la Francia è stato consensuale e meno traumatico e non ha lasciato risentimenti. In ogni entrambi i casi, si tratta di autori quasi sempre relegati al margine del mainstream (con la sola eccezione di Tahar Ben Jellou), a cui il lettore comune presta generalmente poca attenzione (si tratta di edizioni con scarsa distribuzione che dopo pochissimi mesi sono già introvabili). Al contrario il fatto di trovarsi a cavallo tra due mondi apparentemente inconciliabili (ma che in realtà convivono da sempre) dovrebbe spingere il lettore e l’editoria a prestare maggiore attenzione a questi autori.