Ortiche
Scrivere le pagine fino allo sfinimento delle parole e apparizione di quel
personaggio che vedo per la prima volta
Non conosco il suo nome
inutile domandarglielo
non sa scrivere
non sa neppure parlare
sa soltanto che è nato dal contatto tra la penna e la carta
dalla vicinanza di due parole affiancate dal caso
mi lascia fare quando lo colloco al centro della riga tra un
verbo e un oggetto
ma lo scosto appena quando tenta di occupare tutto il campo
e fa orecchie da mercante quando tenta di trascinarmi nell’azione,
ho deciso di condurre il gioco da sola.Orties
Ecrire les pages jusqu’à épuisement des mots et l’apparition de celle-ci
personnage que je vois pour la première fois
je ne connais pas son nom
inutile de lui demander
ne peut pas écrire
il ne peut même pas parler
il sait seulement qu’il est né du contact entre la plume et le papier
par la proximité de deux mots côte à côte par hasard
il me permet de le faire quand je le place au milieu de la ligne entre un
verbe et un objet
mais je le pousse juste de côté quand il essaie d’occuper tout le terrain
et il fait la sourde oreille quand il essaie de m’entraîner dans l’action,
J’ai décidé de mener le jeu seul.
tratta da: Ortiche, prefazione, traduzione e cura di Fabio Scotto, Il Ponte del Sale, Rovigo 2007
Venus Khory Ghata nasce nel 1937 a Bsharri, in Libano, da famiglia maronita così come la poetessa Andrée Chedid, nata nel 1920 (il padre era originario di questa comunità).
Nello stesso paese, cinquant’anni prima, viene al mondo anche il poeta Khalil Gibran, cosa della quale la poetessa andrà sempre fiera.
Venus è figlia di un teologo cristiano, interprete di arabo e francese, e di una madre contadina. Intraprende studi letterari presso L’Ecole Supérieur Des Lettres nella capitale del Libano.
Nel 1959, a diciotto anni, viene eletta miss Beirut e nel 1957 sposa un facoltoso uomo d’affari, ma ben presto abbandona quella vita, si separa dal marito e da quella realtà di agi e di ricchezza che aveva cercato essendo nata povera, ma che era fatta anche di molta apparenza e finzione. I due figli maschi avuti dal matrimonio seguiranno poi il padre.
Lei sceglie una vita vera per trovare, nel silenzio, la poesia.
Ed è del 1966 la sua prima opera Les Visages inachevès, (in it: “volti incompiuti”) seguita da quindici raccolte di poesie e da altrettanti romanzi.
Per sfuggire alla guerra che distrugge il Libano, emigra in Francia. Sposa, in un secondo matrimonio, il ricercatore e medico francese Jean Ghata con il quale, nel 1975, mette al mondo una figlia, Yasmine Ghata, diventata a sua volta scrittrice (è autrice de La notte dei calligrafi, premio Grizane Cavour 2007, e di altri romanzi).
Traduce in francese le opere del poeta arabo Adonis e collabora con la rivista «Europe» diretta da Louis Aragon, del quale traduce le poesie in arabo.
Numerose sono le distinzioni onorarie ricevute e i premi letterari tra cui il Gran premio SGDL per la poesia e per tutto il suo lavoro (1993) Jules Janin-Premio dell’Accademia di Francia (2009) e tanti altri.
Vive a Parigi dal 1972.
Mi tuffo nel grande flusso delle poesie di Venus Khoury Gata e ne scelgo una, tratta dal poema Ortiche (2011 Al Manar) ma, in realtà, incontro per la prima volta la poetessa leggendo due dei suoi bellissimi romanzi: Sette pietre per l’adultera (2007 Mercure de France) e Gli ultimi giorni di Mandel’štam (2016 Mercure de France).
Nel primo dei due, Venus ci riporta all’assurda e drammatica realtà che colpisce, purtroppo, ancora moltissime donne, in Africa e in altri luoghi del mondo. Il romanzo è ambientato a Khouf, nell’Africa subsahariana.
Senza sosta tra le pagine del libro, seguo la storia di Noor, una giovane donna che aspetta di essere lapidata come dice la fatwa, perché colpevole di adulterio.
Passo dopo passo, come per proteggerla, la cerco in continuazione insieme alla giovane ed intraprendente francese che la vuole salvare, e che è a sua volta in fuga da proprie storie. Dall’incontro di queste due donne nasce un’avvincente storia di solidarietà femminile che, attraverso l’aspro conflitto fra rispetto della tradizione e aspirazione alla libertà, scopre risorse preziose e opera veri prodigi.
Il secondo romanzo è veramente sconvolgente. E’ un omaggio al grande poeta russo Osip Mandel’štam.
Osip, nel 1938, ormai malato e prossimo alla morte che avviene nel campo di transito in Siberia, si rivolge a Stalin con queste parole:
“Avrai solo il mio cadavere, la mia poesia su di te sopravviverà. Mi hai vietato di lavorare, di pubblicare, mi hai dato la caccia di città in città […] ma la mia poesia è più forte di te. Vuoi che te la reciti?: “Si sente solo il montanaro del Cremlino/ l’assassino e il mangiatore di uomini”.
Le parole che in questi romanzi raccontano tante storie, mi riportano in continuazione alla poesia di Venus Khory-Ghata, alla scrittura, che per lei ha un potere salvifico: è la possibilità di scendere in un mondo di aspettative, di solitudini e di incertezze emotive. E’ la possibilità di narrare la storia del fratello morto che, come racconta la poetessa, sembra quasi ‘suggerirle’ i versi che poi lei scrive. Fratello amatissimo morto per droga e per gravi problemi mentali sopravvenuti, ma anche per la terribile incomprensione del padre che lo fa internare in manicomio.
Causa di un altro profondo dolore è la morte del marito, e il senso di colpa che si porta dentro per essere viva e protetta, a Parigi, lontana dalla guerra che massacra il Libano.
Quella di Venus è una lingua particolare, è una commistione fra il francese e l’arabo, ovvero arricchisce la lingua francese che, secondo lei è diventata molto povera e poco espressiva, con la ricchezza della lingua araba, con le sue ampie volute e i suoi periodi ricchi di metafore e immagini.
Le ortiche rappresentano per lei, tutto quello che ricorda della casa natale.
Le ortiche che da un lato della casa oscurano la vista e sono così folte tanto che nessuno riesce a eliminarle.
La poetessa vive l’infanzia al cospetto della madre che consola, ammonisce, richiama, nutre e protegge contro le insidie del mondo. Tutto questo, si colloca in una natura spesso aspra, petrosa e infida ma rispettata e amata come prima madre, madre della propria stessa madre.
Troviamo in questa poesia il legame profondo con la propria terra, con alcuni tratti capaci di furore e di coraggiosa e passionale resistenza alle insidie del vivere. La casa natale quindi si carica di un valore fondamentale e affettivo grandissimo. E possiamo dire che, le ortiche, elemento botanico, sono funzionali alla narrazione lirica, dato che la poesia di Vénus si pone sempre come una sorta di ‘mistura’ tra romanzo e verso, conforme alla tradizione araba.
Infatti ella stessa scrive:
“Racconto storie nelle mie poesie, e scrivo nella poesia dei miei romanzi. Mai della poesia astratta che possa apprezzare in altri. Il poeta arabo è un narratore …”
Anche in questo poema la morte è ovunque, questo perché la guerra in Libano ha lasciato 200.000 vittime. Ortiche è l’esempio di una forza evocativa di matrice visionaria, memoriale e onirica dall’ampio periodo poetico (cit. Ortiche, «Youtube», 23-11-2020).
Il luogo è un villaggio in montagna, nel Nord del Libano, dove nevica cinque mesi all’anno.
Molti sono i protagonisti del poema ma, come ci dice la poetessa, alla fine è la pagina che ‘parla’. E’ la pagina stessa che è ‘scrittura’, una scrittura mitica dove c’è la materializzazione della madre morta che ‘ritorna’ al villaggio, come per magia. Di lei viene messa in luce la forte corporeità procreatrice e la sua lotta per salvare la casa dalle ortiche, che non sono altro che un simbolo, un emblema del soffocamento della possibilità di vita.
Un tempo sospeso assume il tono delle favole e la donna (la madre) che si appresta a strappare le ortiche, lo fa da morta perché, da viva, ha rinviato sempre quel lavoro ritenuto superiore alle sue forze.
Una madre che da viva, nonostante la forza apparente, non riesce ad allontanare le minacce dell’esistenza e che, detto dalla poetessa, trasmette quell’insicurezza ai figli.
Una madre che si ‘recupera’ da morta, riletta nella sua umanità.
E, sempre la madre, con lo stesso gesto con cui libera dalle ortiche il ‘terreno’ della pagina in cui si scrive, riesuma le poesie del figlio, fragile ragazzo, profondamente legato a lei e a sua sorella morta. (cit. da Ortiche, «Youtube», 23-11-2020)
La madre ‘dice’ tante cose ma gli anni le cadono addosso e per ogni frase le spunta una ruga. Sembra invecchiare ogni volta che parla: tanto è il passaggio, la strada che ha dovuto compiere per giungere fino a lei. Da viva non era cosi anziana, ricorda la poetessa, è invecchiata di colpo quando è morta, quando ha dovuto attraversare il paese in guerra per farsi seppellire nella sua montagna. L’immagine del Paese segna l’appartenenza a un mondo che, per colpa della guerra, diventa fragile ma è un mondo in cui troviamo sempre e, nonostante tutto, una profonda armonia tra l’uomo e la natura. L’immagine del melograno con suoi splendidi fiori rossi, è un’allusione al mestruo delle donne, alla loro forza e femminilità.
In tutto il testo del poema Ortiche, l’assenza della punteggiatura segna il fluire del tempo, dalla condizione della morte evocata in continuazione, alla vita e viceversa. La scrittura di Venus Khoury-Ghata è veramente molto interessante perché, come già accennato, in un coacervo linguistico, si fondono l’arabo, l’aramaico e il francese. E’ la lingua materna della poetessa, la lingua delle sue origini. Nella sua poesia diventa possibile ciò che, nella realtà, è impossibile. La poesia fa si che vengano disseppellite lacrime, parole poetiche, parole di profonda vicinanza a quel vissuto lontano.
In alcuni punti del poema, le voci dei personaggi, e il loro ‘grido’, assomigliano a quelle di un coro greco che chiede alla madre il motivo della violenza del padre nei confronti del fratello e della sua poesia, violenza che ‘seppellisce’ il giovane sotto le ortiche. La poesia e le parole scritte sono i testimoni di questa violenza che ‘mette in fuga anche la luna’ … e che, solo la ‘pagina’, può raccontare.
Compare tra i tanti personaggi, anche lo zio, il fratello della madre e i luoghi che lui frequenta ma, tutte le immagini sono tese a raffigurare un mondo primitivo, in cui volti e natura si compenetrano e tutto diventa molto indistinto.
L’unica figura che emerge veramente fra le righe è il Maestro Lucà. Nessuno l’ha visto arrivare. Lui viene da fuori, sono state le autorità a nominarlo tale. La gente comprende e sa che lui insegna ai loro figli ‘i tre alfabeti’. La realtà passata emerge come in un sogno, presente e passato interagiscono tra di loro. La vita, e la morte che si unisce in continuazione alla vita, la lingua di tutti i giorni e la lingua della cultura, si fondono nell’immagine del Maestro che insegna anche ‘attraverso la caratteristica dell’immaginazione’ (cit. you tube 23-11-2020) e questi tre alfabeti saranno una traccia che i loro figli si porteranno dentro per sempre, memoria delle lingue parlate nel villaggio di Bsharri, tutto viene da lì.
Riemerge quindi ancora l’importanza delle tre lingue cui Venus fa sempre riferimento e che costituiscono la spina dorsale della sua poesia: l’arabo, l’aramaico e il francese.
Rosalba De Cesare©
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