Biblo

Tranquilla come il giusto
antica come la verità
Biblo, l’amore mio, dal colore dell’ambra,
delle cose che il vento risveglia di memoria in memoria,
come il focolare domestico quando viene la sera.
E sul porto,
alto come il mare straziato,
il sole innocente
evita ancora una volta lo scoglio dell’orizzonte,
per rinascere domani vecchio come la terra.
Biblo, l’amore mio, si veste di polvere.
Ma, quando la notte rischiara i sentieri del tempo,
in fondo all’acqua si vede
la dura trasparenza dei mondi che si scontrano.
Biblo, l’amore mio, ha il silenzio per respiro.
Ascolta,
è il rumore intenso delle navi che portano
un pugno di sabbia, l’oceano,
l’equatore e l’occidente.
Sento bruciare mezzogiorno
e nei nostri occhi d’un tratto più grandi
la scrittura è sgorgata.
Biblo, l’amore mio,
è il cuore del tempo.

Byblos

Tranquille comme un juste
ancienne comme la vérité,
Byblos o mon amour à couleur ambrée,
des choses que le vent ranime de mémoire en mémoire,
tel un feu domestique lorsque le soir descend.
Et sur le port,
debout contre la mer écartelée
le premier des soleils
évite encore une fois l’écueil de l’horizon,
pour renaitre demain vieilli comme la terre.
Byblos, o mon amour s’habille de poussière.
Mais quand la nuit éclaire tous les chemins du temps,
on voit au fond de l’eau,
la dure transparence des mondes qui se cognent.
Byblos, o mon amour, a le silence pour haleine.
Ecoute,
c’est la bruit-plein des vaisseaux qui ramènent
un peu de sable, un océan,
un équateur, un occident.
J’entends bruler midi,
et dans nos yeux soudain plus grands,
l’écriture a jailli.
Byblos o mon amour,
n’est que le coeur du temps.

(da: La terre arrètée)

Donne del mio paese

Donne del mio paese
la luce v’ inasprisce il corpo,
l’ombra lo riposa;
sommessa elegia delle vostre metamorfosi.
La sofferenza vi screpola le labbra,
e avete gli occhi incastonati da un solo orafo.
Voi,
che rassicurate la montagna,
che all’uomo dite che è un uomo,
alla cenere che è fertile,
al paesaggio che è immutabile.
Donne del mio paese,
nel caos ritrovate ciò che conta.

Femmes de mon pays

Femmes de mon pays,
une meme lumiére durcit vos corps,
une meme ombre les repose;
doucement élégiaques en vos métamorphoses.
Une meme souffrance gerce vos lèvres,
et vos yeux sont sertis par un unique orfèvre.
Vous,
qui rassurez la montagne,
qui faites croire à l’homme qu’il est homme,
à la cendre qu’elle est fertile,
au paysage qu’il est immutable.
Femmes de mon pays,
vous, qui dans le chaos retrouvez le durable.

(da: La terre arrètée)

Nadia Mhammad Ali Hamadedh nasce a Beirut l’8 luglio 1935, da padre libanese-druso, Mohammed Alì Hamadeh, diplomatico e scrittore, e da madre algerina francese. E’ cresciuta bilingue. In Nadia Tueni, in realtà, le due “anime” – l’araba e la francese – convivono strettamente dal momento che la madre era francese, ciò nonostante essa sente il bisogno di giustificare la sua ‘francofonia’ e lo fa in una trasmissione radiofonica francese di «Radio Liban» in un intervento intitolato: Ecrire l’arabe en francaise. Ecrivant en francais, je ne m’en (sens) pas moins libanaise, arabe rattachée à un arriere-pays dont je pense que ma poésie est la projection (“Scrivendo in francese, non (mi sento) meno libanese, araba, attaccata ad un entroterra di cui penso che la mia poesia sia la proiezione”). Nadia Tueni non è l’unico ‘fiore’ nato nel deserto. Prima di lei ho scoperto Andrèe Chedid e Venus Khoury- Ghata: tre donne, poetesse, dalla vita difficile, un Paese in comune distrutto da una guerra ‘incivile’ e terribile. Tre donne nate in Libano, due di loro, Andrèe e Venus, scelgono di vivere in Francia anche a causa delle guerra. Tutte e tre scrivono in francese perché è la lingua diffusa dalla colonizzazione, ma nei loro versi risuona, anche se in modo diverso, il ritmo e la profonda musicalità della lingua araba.
L’espressione “Arriere-pays” (entroterra) riferita al Libano, porta a supporre, tuttavia che, ‘l’anima’ francese in lei non predominante, sia almeno molto importante. Respinge però con decisione ‘l’accusa’ di essere un’Apatride, un’Apolide (cioè, un essere umano che moltissime volte si ritrova, senza che l’abbia scelto, privo di cittadinanza per l’impossibilità di ereditarla dai genitori, o perché membro di un gruppo sociale che ha subito una discriminazione, o perché profugo a seguito di guerre o occupazioni militari, o apolide per motivi burocratici, o a causa di leggi sbagliate sulla cittadinanza dei diversi Stati e che per questo lo rendono sempre più ‘invisibile’ al resto del mondo …). ‘Accusa’ priva di senso, che proviene dalla vecchia, quanto violenta mentalità colonialista, quindi razzista che, oltre a negare la storia della poetessa e di tante persone che come lei hanno vissuto in quel periodo, ferisce gravemente l’immagine dell’Apolide e il delicato e complesso problema dell’Apolidia. Parlare ‘parallelamente’ alla lingua usata in un Paese, un’altra lingua, o più lingue diverse da quella ufficiale – acquisite per storie personali , politiche, culturali diverse, ecc . – ci rende più ricchi e liberi, viaggiatori e abitanti di un unico grande mondo.
Suo fratello, Marwan Hanadeh, è un giornalista e un politico del Partito Socialista-Progressista libanese, che ha ricoperto nel corso degli anni incarichi molto importanti. E’ stato, infatti, Ministro dell’Istruzione Superiore, delle Telecomunicazioni, dell’Economia a e del Commercio, della salute e Ministro degli Sfollati. Nel 2004 viene ferito in un attentato e, il 5 luglio 2020, in seguito alla terribile esplosione che devasta il porto Beirut, si dimette dal Parlamento, affermando in un’intervista ad «Al Arabiya» (e pubblicata da Ismaeel Naar, Al Arabiya, Future TV, il 5 agosto 2020) di non sentirsi più onorato di far parte di un “governo inefficace, che è solo un mix di opposizioni, corruzioni e partiti d’èlite”. Nel 2004 rimane ferito in un attentato.
Nadia studia nelle scuole francesi in Libano e in Grecia, ad Atene, dove suo padre è ambasciatore del Libano. Frequenta l’Ecole Des Soeurs de Besancon, poi La Mission – Laique Francaise e studia Giurisprudenza presso l’Universitè Saint-Joseph di Beirut. Nel 1953 sposa con una cerimonia civile, Ghassan Tueni, editore di An Nahar, uno dei più importanti giornali del mondo e decano delle stampa libanese, con il quale mette al mondo tre figli.
Il primo figlio Gebran, giornalista e politico, da giovanissimo a 18 anni, vive l’orrore dell’intolleranza settaria che porta, nel 1975, alla guerra civile in Libano. Studia moltissimo e consegue il Bachelor of Arts in relazioni internazionali presso l’Ecole des Hautes Edudes de Paris laureandosi nel 1980 e, nel 1992 studia Managment al Cedep Inse Ad. La sua carriera inizia come direttore generale, caporedattore ed editorialista di An Nahar and International che lui e altri giornalisti lanciano a Parigi, dove sconta anche un esilio dal 1990 al 1993, a causa dell’amicizia con il generale Michel Aoun, attuale Presidente del Libano. Nel 2005 contribuisce alle manifestazione della Rivoluzione dei cedri. Tra i tanti incarichi importanti c’è quello di essere membro del Fondo Wan per lo sviluppo della libertà di stampa creato nel 1994. Dal gennaio del 2000 al 12 dicembre 2005, giorno della sua morte, Gebran è editore, Presidente del consiglio di amministrazione, Direttore ed editorialista di An Nahar, il grande giornale fondato da suo padre e suo nonno. Nel 2000 diventa famoso a livello internazionale perché pubblica una lettera, in prima pagina su Al-Nahar (20 marzo 2020 in occasione del vertice che si tiene a Ginevra tra B. Clinton e il presidente siriano Bashar Assad, per un accordo che, purtroppo, non arriva) indirizzata a Bashar Assad, figlio ed erede del presidente siriano Hafez al Assad, nella quale chiede il ritiro delle truppe siriane dal Libano a seguito dell’Accordo di Taif del 1990. (Accordo negoziato e raggiunto a Ta’if, Arabia Saudita, ufficialmente Riconciliazione Nazionale per promuovere la fine della guerra civile e il ritorno della normalità politica in Libano). Gebran Tueni muore il 12 dicembre 2005 mentre si reca alla sede del suo giornale, investito dall’esplosione di un’autobomba. La sua morte sconvolge i cittadini libanesi che accorrono in migliaia nel giorno del suo funerale.
Nel 2006 la World Association of Newspapers, istituisce il premio Gebran Tueni Award da assegnare a “un editore, o editore di giornali nel mondo arabo, che dimostri i valori della libertà di stampa”.
Un altro dei tre figli, Makran, muore a 21 anni nel 1987, in un incidente stradale a Parigi. La figlia, Nayla, nata nel 1955, muore di cancro a 7 anni e Nadia, dopo una battaglia di 18 anni anche lei contro il cancro, ci lascia a soli 47 anni, il 20 giugno 1983, a Beit-Meri, vicino Beirut.
Nadia Tueni, durante la sua vita ha ricevuto molti premi, tra cui il Prix Archon-Despérouses della Accadèmie Francaise, l’Ordine di La Pléiade e il Prix Said Akl. Dal 1963 lavora come redattrice letteraria del quotidiano libanese in lingua francese «Les Jour» e nel 1967 dà il suo contributo a varie pubblicazione arabe e francesi.
(1 – Dal blog Tutte le anime di Nadia Tueni, di G.M.Reale) Tueni entra ufficialmente nel mondo della poesia nel ‘63, dopo la morte della figlia Nayla, con la raccolta Le textes blonds (pubblicata a Beirut nel 1963). Il filo onnipresente è Nayla: l’immagine della sua bambina sempre presente nei suoi versi, ma celata dietro un riserbo dei sentimenti che sgorga direttamente dalla religione drusa familiare.
La seconda raccolta L’Age d’écume (1965) la immette nel circuito dei media ma è nel 1967, come già accennato, che si apre per lei il mondo del giornalismo, quando diventa redattrice letteraria del giornale libanese Le Jour e collaboratrice di vari testi in arabo, tra le più importanti collaborazioni c’è quella con la rivista Shi’ir. Con la devastante guerra arabo-israeliana, il vissuto individuale e collettivo, si fonde in una nuova opera Juin et les Mécréantes in cui vengono messe in scena quattro donne, quattro ‘anime’, cioè quattro identità: Dahoun l’Ebrea, Tidimir la Cristiana, Sabba la Mussulmana e Sioun la Drusa che rappresentano la ‘moltitudine’ delle appartenenze della sua terra. è il 1973 e l’Accadèmie Francaise la premia per i Poèmes pour une histoire, versi in cui risuona la storia del suo popolo, il vento dell’esilio e la ricerca delle radici, la morte che si insinua nella solitudine esistenziale, il tempo che precipita.
La guerra civile che scoppia nel 1975 scuote profondamente il Libano, ma Nadia Tueni reagisce con una nuova raccolta di poesie: Liban: vingt poèmes pour un seul amour (pubblicata nel 1979). E’ la geografia in versi del Libano e del cuore delle sue città, dei colori, degli odori, delle idee, degli stati d’animo, della sabbia dei deserti. E’ struggente quanto scrive: “Era il Libano dei giardini, quanto è dolce…”.
Nel 1982 in Archives Sentimentales d’une guerre au Liban , l’ultima silloge prima della morte, segna il passo d’addio il cui suono si avverte sin dai primi versi della raccolta. Nella consapevolezza e nel dolore della sua malattia fisica, risuona il dolore per la malattia storica da sempre, della sua terra:
“Terra di troppe genti e di nessuna … dove la guerra ha seminato città morte, metafore di morti pensieri, dove minaccioso si stende il tempo anonimo del crepuscolo”.
Nadia Tueni si lascia influenzare dal Surrealismo francese e da poeti come Rimbaud e Lautréamont ma, in realtà, il suo lavoro è saldamente radicato nell’eredità della grande cultura araba che si porta dentro. Lei è poetessa ma anche donna profondamente politica, nel significato, e senso, più vero e profondo del termine.
In Poesie d’amore e di guerra (2006: XXXV) descrive cosi il Libano:
“Appartengo ad un paese che si suicida ogni giorno mentre viene assassinato. Appartengo infatti ad un paese che è morto più volte. Perché non dovrei morire anch’io […] di questa morte brutta, lenta e feroce, di questa morte libanese?” .
(cit. – Dal blog Tutte le anime di Nadia Tueni). Nel 1934, a Beirut, nasce la prima scuola per l’istruzione femminile e tra il 1950 e il 1975, una generazione di donne si afferma nell’ambito della poesia e della narrativa in lingua francese, la lingua che il periodo di dominazione culturale della Francia in Libano (ovvero colonizzazione…) rende obbligatoria nelle scuole, nei tribunali e che pervade lentamente tutta la società. La colonizzazione francese fu solo un altro giro della complessa matassa che ha fatto scrivere a Gibran Khalil Gibran: “Tu hai il tuo Libano e io il mio”.
Il Libano storicamente è stato attraversato da più lingue, ciò ne ha determinato la vocazione poliglotta: dalla lingua di Canaan, all’aramaico al francese, all’inglese. Nella convivenza delle ultime tre lingue convergono e si annodano politica, religione e, non ultimo, anche quello che qualcuno ha definito il vento dell’esilio, che ha disseminato milioni di libanesi sul pianeta. Plurilinguismo e pluralità di confessioni religiose sono caratteristiche radicate nell’anima storica di questa terra, una moltitudine di appartenenze diverse che non si frantuma, e mantiene quell’unicità che i versi di Nadia Tueni ci rendono in molte poesie dedicate a Beirut ed al Libano. Nel 1984 esce, postumo, La terre arrètée, (traduzione: La terra immobile, Laboratorio centrale, la linea del novecento, Sugarko Edizioni). Publicato in italiano nel 1999. Nella bellissima introduzione Gisele Vanhese, traduttrice del libro scrive: ‘(…)In Nadia Tueni, il vero luogo riveste i colori, i profumi e i sapori di un Arrière Pays, espressione utilizzata in Juin et les mécréantes per indicare in un primo momento il Libano e, successivamente, tutto il Medio Oriente. Nate dalla contemplazione delle sostanze elementari della sua Terra, le immagini della Tueni descrivono e circoscrivono il visibile nella sua pienezza (…) Per molti versi il testo tueniano si avvicina al linguaggio onirico creando numerosi problemi alla traduzione. (…) La luna, l’albero, il fuoco, la ruota … paragoni, metafore, sinestesie ed ossimori instaurano un ‘regime notturno’ (…) la scrittura diventa visionaria laddove ritrova l’essenza profetica dell’enunciazione araba. La poesia tueniana intreccia la celebrazione della vita alla presenza ossessiva della morte. Tratteggia progressivamente un paesaggio della ‘soglia’, in cui visibile e invisibile si fronteggiano. E più che il giorno sfavillante del Mediterraneo, qui è la notte con i suoi abissi ad essere invocata. Come altri poeti, Nadia Tuèni, ritrova il grande modello drammatico delle mitologie paleo-orientali fondate sui cicli eterni della nascita, della morte, della rinascita e sulla valorizzazione della donna come grande dea e terra madre.(…)Il tema della fenice – legata ancestralmente al tema natale, la Fenicia, fonda in modo criptico il sostrato mitico di questa visione(…)’.
Ora è arrivato il momento di salutare anche questa grande poetessa: lascio un fiore tra le pagine dove, lentamente, sfumano i suoni, i colori e anche i silenzi delle sue bellissime poesie e chiudo il libro ma, una poesia scritta sulla quarta di copertina mi fa pensare, per un attimo, ad una finestra lasciata volutamente aperta, dalla quale mandare un ultimo e struggente saluto …

… Dimmi il nome della casa
la cui forma è nella mia forma
e l’ombra nella mia ombra.
Dimmi l’albero che corrisponde
alla terra dove mi siedo,
quando giorno e notte si confondono

… Dites-moi le nom de la maison
dont la forme est dans ma forme
et l’ombre dans mon ombre.
Dis-moi l’arbre qui correspond
à la terre où je suis assis,
quand le jour et la nuit se confondent

(Nadia Tuèni, dalla quarta di copertina del libro La terre arrètée, La terra immobile).

Rosalba De Cesare©