Mi trascina verso il peso delle cose
questa scimmia che ho sulla schiena.
È un lembo di niente
il suo parlare indistinto,
una spina,
il mormorio del traffico.

“o re, il peso si fa spirito
siamo una costellazione”

Così nel tenue turbamento della nebbia di Monza
                          – incanto, incauto, vivo per scommessa
la vita è una sala d’aspetto
e ho perso il momento

tratta da: Poesie di ieri, Oédipus, 2019, p. 12

Nella Prefazione alla raccolta di esordio di Stefano Bottero, Biancamaria Frabotta scrive: “L’autore di Poesie di ieri vive un presente che ogni giorno si arricchisce in un affascinante e malinconico melange di passato non suo e un futuro desiderato, ma non progettato a sua misura. Certamente la sua possibilità di chiamare all’appello tutti gli ieri della sua breve vita vissuta è ancora assai scarsa, eppure per qualche misteriosa coincidenza la polvere malinconica e il pensiero assiduo della fine sparsi a piene mani sin dai precordi shakespeariani della modernità, Bottero sembra averli pienamente assorbiti”. La prima sezione della silloge A ritmo del nulla (da cui è tratta la lirica in questione) già denuncia l’impostazione del giovane poeta, la sua petizione per essere accolto nel circolo dei poeti che hanno vissuto (la dimensione del vissuto rappresenta, nel bene e nel male, la base della sua poetica) e scritto sotto il segno del nichilismo. L’altro fondamento della sua poetica appare la poesia stessa. Le numerose citazioni di cui è costellata la raccolta, i tributi a John Cheever, Pier Paolo Pasolini, Dario Bellezza, Ginsberg e Rilke, testimoniano una lunga frequentazione che a sua volta ha generato una profonda consonanza con l’opera di questi riconosciuti maestri (Stefano ne fa una lunga lista in una sua nota al termine della raccolta). Diamo infine la parola all’autore:

Qual è stato il percorso umano ed esistenziale che ti ha portato alla poesia? Ti ricordi una folgorazione iniziale, un momento preciso dal quale è cominciato tutto oppure è stato un processo graduale e lento?

Ho scritto il mio primo libro a sei anni, incollando fogli di carta su fogli di cartone, con parole in stampatello maiuscolo usando un pennarello viola. Da quel momento non ho più smesso.
A vent’anni ho incontrato Biancamaria Frabotta e nella sua classe ho realizzato il valore identitario, oltre che estetico, di ciò che avevo scritto fino a quel punto. Che la poesia deve adottare il baratro.

Nei titoli delle cinque sezioni che compongono la tua silloge di esordio Poesie di ieri è visibile un percorso che parte dalla negazione totale (A ritmo del nulla è, per l’appunto, il titolo della prima sezione) ma che poi approda, nell’ultima sezione (che si intitola Circe) a un richiamo al mondo del mito, rielaborato però in una chiave del tutto personale passando per un omaggio, nella penultima sezione (intitolata To John Cheever) allo scrittore americano.  Si tratta di consapevole e ideale percorso oppure di una scelta (apparentemente) casuale?

Cheveer e Circe sono, in un certo senso, interlocutori. Molte voci appaiono nello svolgersi di Poesie di ieri ma le loro hanno significato per me più di tutte, nei mesi in cui terminavo di scrivere il libro. Cheever – lo scorrere delle sere in cui sobrietà, solitudine, erotismo e alterazione si sovrappongono, si confondono con i volti.

Circe – l’apice dell’abbandono, quando tutto il resto intorno trasfigura nella sottomissione.

A mio avviso il cuore della silloge in questione è un groviglio esistenziale che la poesia tenta di indagare, di rappresentare, ma che non è in grado di sciogliere. Pensi che la poesia possa o debba, in parte o del tutto, rappresentare, rispecchiare l’io dell’autore?

Rispecchiare, non credo. Nello specchio guardo il contrario di me stesso e la poesia non è mai altro rispetto a me. Paradossalmente, è essa stessa io, eppure non sono io. È un oggetto oltre me.
Chi scrive
parlando-di-sé e basta non scrive poesia, ma diario. Al contempo, scrivere tendando di negare e di azzerare l’io è un procedimento che nel migliore dei casi fallisce, nel peggiore è inautentico. È una questione di equidistanza, in fin dei conti: scrivo con i soli strumenti che ho – quelli dell’io – ma non scrivo me.

Nella tua nota a chiusura della silloge elenchi molti nomi di poeti (S. Penna, D. Bellezza, R. M. Rilke, A. Ginsberg, PP Pasolini e molti altri) a cui in qualche modo ti senti in debito. Potresti raccontarci più in dettaglio in che modo e misura ti senti in debito con loro?

Come tu stesso ricordavi, Poesie di ieri è un esordio. Composto negli anni dell’università, è un libro che ha attraversato fasi, voci, crisi. Credo sia impossibile scrivere qualcosa senza che si crei intrinsecamente un debito verso le parole di altri e, nel caso degli anni di Poesie di ieri, sentivo la necessità di dichiarare quel debito. Di non lasciare che i legami con quelle voci e quelle geometrie restassero miei soltanto. È procedimento legato a ciò che sentivo e vivevo allora – ad alcune delle mie ossessioni di allora, più precisamente.

Le “Poesie di ieri” sono state scritte tra il 2012 e il 2018, quindi poco prima dell’esplosione della pandemia. Credi che il trauma vissuto negli ultimi anni (che a dire il vero non si limita agli effetti del virus) abbia influito, direttamente o indirettamente, anche nel tuo rapporto con la poesia, sia da fruitore che da autore?


Onestamente, no. I mesi di chiusura sono stati un’occasione per riscoprire la dimensione della mia
stanza, da me a lungo trascurata. Molto più stretto, nel mio primo capitolo poetico, era il legame con la strada, la notte, la stazione, con la scrivania e le bottiglie nel vano della scrivania.
Penso che, per la medioborghesia occidentale non colpita negli affetti dal virus e riparata dagli effetti immediati della recessione economica, anche i momenti più bui siano stati più che altro un’occasione di
riorientamento dello sguardo. Per alcuni (non credo per molti) questo ha significato anche riscrivere il rapporto con le cose e con la poesia – nel mio caso non credo sia avvenuto. Sento cambiate in me alcune necessità del corpo, non quelle della parola.

Alla tua attività di autore affianchi quella di critico e di ricercatore. Come si compongono questi due aspetti della tua attività creativa e intellettuale? Credi che i due aspetti, quello di autore e di critico, debbano sempre convivere oppure debbano rimanere separati?

Mi sembra impossibile tenerli separati. Sia la scrittura critica che la scrittura poetica richiedono, all’atto, capitali distinti di irrazionalità e lucidità, da tenere a bada a seconda del caso. Ciò che penso-della-poesia in senso critico non viene meno quando compongo, ma trova intersezione con motivi legati all’io e all’estetica cui mi lego. Credo che la ricerca sia per i poeti un’ansa, un contrappeso. Un modo per rimanere nel reale anche quando i nodi si rarefanno.

Negli ultimi decenni sono comparse anche in Italia, sull’onda del fenomeno americano, molte scuole di scrittura creativa. Secondo te si può insegnare a scrivere poesie? Ha senso farlo?

È una domanda complicata. In una certa misura, è possibile e ha senso farlo. A scrivere poesia si impara, in definitiva: un autore deve misurarsi con questioni formali rispetto alle quali non è sufficiente avere un rapporto attivo con la propria sensibilità o una buona cultura letteraria.
Non tutte le realtà di ‘insegnamento’ sono positive: questo è certo. Quella della poesia è una materia tanto complessa e irraggiungibile da rendere ridicola l’idea di riduzione ad ‘argomento del giorno’. I processi che guidano un poeta a scrivere sono processi interiori, sempre e comunque, eppure non credo sia sbagliato pensare di affinare i propri strumenti grazie al contatto con gli altri – nel caso delle scuole, con una classe. Perché per molti, di fatto, le classi di scrittura creativa non sono altro che occasioni d’incontro.