SUONO DI CAMPANA
Tutto si è spento
Il vento passa cantando
E gli alberi rabbrividiscono
Gli animali sono morti
Non c’è più nessuno
Guarda
Le stelle hanno smesso di brillare
La terra non gira più
Una testa si è inclinata
I capelli ramazzano la notte
L’ultimo campanile rimasto in piedi
Suona la mezzanotte.SON DE CLOCHE
Tout s’est éteint
Le vent passe en chantant
Et les arbres frissonnent
Les animaux sont morts
Il n’y a plus personne
Regarde
Les étoiles ont cessé de briller
La terre ne tourne plus
Une tête s’est inclinée
Les cheveux balayant la nuit
Le dernier clocher resté debout
Sonne minuit
Pierre Reverdy nasce a Narbona nel 1889 e muore a Solesmes nel 1960. Amico di poeti come Aragon, Apollinaire, Jacob. Tzara, riconosciuto egli stesso come ispiratore del Surrealismo, amico e collaboratore dei più grandi artisti dell’epoca, come Modigliani, Braque, Matisse, Picasso, Mirò, che illustrarono alcuni suoi libri (straordinaria l’edizione Teriade del 1948 de Les chant des morts, arricchita da 125 incisioni di Picasso), e ancora critico d’arte, musicofilo e partigiano della Resistenza francese (nonché amante di Coco Chanel), Pierre Reverdy rappresenta una complessa figura di intellettuale e di raffinato poeta, sostanzialmente poco noto in Italia.
In questa lirica, tratta dalla raccolta Les ardoises du temps (1918), lo spazio della poesia sono gli occhi. Reverdy non dimora nello spazio, è lo spazio ad abitare il perimetro dei suoi occhi. Il poeta vive la provvisorietà dell’immagine, e quindi la precarietà dell’esistere. Guarda e parla. Ma le parole potrebbero lasciare posto alla sola immagine.
La poesia, notevole per la disposizione tipografica che isola la parola (guarda) o sposta il verso per mezzo degli spazi bianchi, si spoglia sempre più: i colori scompaiono, gli aggettivi quasi non esistono più, solo il verbo porta il senso della frase o scompare completamente, la sintassi non conosce che le proposizioni nominali o indipendenti. La poesia sembra ridursi a una giustapposizione di oggetti, ma di oggetti che si svuotano della loro realtà, e si riducono a un alone di chiaroscuro.
La poesia ruota nell’orbita del Cubismo e del Surrealismo, riflesso della prima maniera di scrivere del poeta: infatti “scrive come un pittore” disse di lui Picasso. Si può capire bene perché da questi versi che evocano l’autunno, creando una suggestione della realtà attraverso le immagini, cercando di penetrare nel profondo “la sublime semplicità del reale”. Come un disegno di Braque o di Picasso, questa poesia sospende un istante dell’universo, lo fissa e lo condensa in tal modo da lasciare apparire l’essenza svelata della cosa. I versi mostrano ciò che normalmente vive di giorno e ciò che si ferma o scompare di notte: solo la campana si fa sentire, ma per sottolineare la solitudine. I capelli che spazzano via la notte rappresentano forse un colpo di vento: questo paragone evoca una testa misteriosa (una testa si è inclinata).
Poesia all’apparenza semplice e con ambientazione nota: il vento, gli alberi, gli animali, le stelle, la notte, ma tutto è pretesto, tutto diventa panorama esistenziale guardato e vissuto dal poeta con occhi disincantati. Il tono è austero, modesto, scarno ma straziante, assolutamente non povero, il pessimismo e lo spleen esistenziali sono evidenti: Tutto si è spento, gli alberi rabbrividiscono, gli animali sono morti, ecc.
D’altronde Reverdy, ritiratosi a Solesmes, trascorse i suoi ultimi anni nella solitudine, circondato da un silenzio che sopportava con stoicismo.
Fausta Genziana Le Piane©
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