Un certo Blaise Pascal, ecc., ecc. 
(da Les Paris stupides, Prévert)

Questa sera dormirò
Nell’eternità
dormendo di quel sonno buono di chi ha finalmente capito
Che non ci può essere riposo se il tempo non si ferma
Ho fuggito ogni pensiero
E tuttavia io sono
Non posso diventare il bel meccanismo
Che promettevano il mio corpo e le mie mani e le mie azioni

E piango di terrore davanti al prossimo giorno
L’animale
Dorme beatamente finché non impara
Che il sole è ghiaccio
L’amicizia quel grido
Che gettiamo a noi stessi
Che il dritto e il rovescio sono due
La stessa cosa umana
Dormire
Dormirò per sempre nella terra amata
Calda terra dove il cuore diventa altro
E non lo sa

Io che da ben troppo tempo ho perso
Il ricordo dell’acqua
Fredda e piena di vita
Essere un corpo che oscilla di roccia in roccia
E per ritrovarci nelle notti in cui ci amavamo
Dormire finalmente senza brutti sogni
Senza risveglio monotono e senza rumore e senza grida
Ho odiato fin troppo
Ho voluto troppo e vorrei
Strapparmi via il cervello
Gettarlo in un angolo
Poiché fu il povero strumento
Come il vecchio attrezzo abbandonato nell’ombra
Come il bambino crudele che ancora non è nato
A riposare me ne vado
Nelle viscere di queste tenebre potenti
Sciogliermi in altre notti benedette
Essere la notte
Non essere più nulla
Due date di pietra
In mille cimiteri

Un certain Blaise Pascal, etc., etc. 
(Prévert, Les Paris stupides)

Ce soir j’irai dormir
Dans l’éternel
Le bon sommeil de ceux qui ont enfin compris
Qu’il n’est pas de repos si le temps ne s’arrête
J’ai fui toute pensée
Et cependant je suis
Je ne puis devenir la belle mécanique
Que promettaient mon corps et mes mains et mes actes

Et je pleure d’effroi devant le jour prochain
L’animal
Dort en félicité tant qu’il n’a pas appris
Que le soleil est glace
l’amitié ce cri
Que l’on jette à soi-même
Que l’endroit et l’envers sont deux
La même chose humaine
Dormir
Je vais dormir sans fin parmi la terre aimée
Chaude terre où le cœur se crée autre
Et ne le sait

Moi qui de bien longtemps ai perdu
Le souvenir de l’eau
Froide et vivante
Être un corps balancé de rocher en rocher
Et pour se retrouver aux nuits où l’on s’aimait
Dormir enfin sans rêve mauvais
Sans réveil monotone e sans bruit et sans cri
J’ai bien trop détesté
J’ai trop voulu et je voudrais
M’arracher la cervelle
La jeter dans un coin
Puisqu’elle fut le pauvre instrument
Comme le vieil outil à l’ombre délaissé
Comme l’enfant cruel qui n’est pas encor né
Reposer je m’en vais
Dans les entrailles de ces puissantes ténèbres
Me fondre en d’autres nuits bénies
Être la nuit
N’être plus rien
Deux dates de pierre
Dans mille cimetières 

(Traduzione di Fausta Genziana Le Piane)

È la prima volta, scrive Simone de Beauvoir, che una donna parla delle sue prigioni”

Nata ad Algeri nel 1937, Albertine è una ragazza fuori dal comune, esempio di rabbia di vivere e di libertà per generazioni. Abbandonata in orfanotrofio, a due anni è adottata da una coppia di una certa età. L’infanzia è segnata da sofferenza e umiliazioni. Il suo carattere indomabile e le difficili relazioni con i genitori adottivi la portano in un riformatorio, al Bon Pasteur di Marsiglia, da cui evade otto mesi dopo, il giorno stesso del suo esame orale di maturità, per rientrare a Parigi in autostop. Minorenne, ricercata, senza appoggi, per sopravvivere si prostituisce, compie furtarelli nei negozi e nelle auto in sosta, fino a quando nel 1953, con la compagna di pena del Buon Pastore di Marsiglia, Emilienne G. che l’ha raggiunta, tenta una rapina in un negozio di abbigliamento. La rapina fallisce, la proprietaria della boutique è ferita alla spalla destra da un colpo d’arma da fuoco esploso da Emilienne. La pistola però è quella che Albertine ha sottratto al genitore adottivo. La mancata rapina manda entrambe le ragazze nel carcere di Fresnes, poi nella prigione-scuola di Doullens dove Albertine è trasferita nel 1956. L’evasione da questa prigione, nel 1957, saltando da un muro di 10 metri, le procurerà la rottura dell’astragalo, un ossicino del tarso nel piede. Questo incidente sarà la causa del suo zoppicare. Un uomo passa, la raccoglie e la cura: è Julien Sarrazin (personaggio presente in tutti i romanzi della scrittrice), piccolo malvivente dal cuore gentile, che due anni dopo diventerà suo marito. Per loro inizia un lungo periodo d’avventure e di furti. Attraverso arresti ed evasioni, s’incrociano senza ritrovarsi quasi mai. Nel 1958 nasce l’amicizia con Maurice Bouvier, un uomo semplice, un onesto meccanico (il personaggio di Jean ne L’astragalo e quello dello “zio” ne La via traversa), che si dimostrerà lungo l’intero arco della vita della scrittrice sostegno fedele e fidato. Albertine muore in sala operatoria, non ancora trentenne, nel corso di un intervento di nefrectomia, Julien intraprende una lunga causa giudiziaria che vince. Con il risarcimento fonderà una casa editrice, la casa editrice Sarrazin.

Famosa per la produzione in prosa (L’Astragale, 1965, La Traversière, 1966, La Cavale, 1965), Albertine è poco nota per l’attività poetica. La maggior parte delle poesie è stata concepita in prigione. La poesia in questione è stata scritta prima del tentativo di suicidio al ritorno dal processo dinanzi alla Corte d’Assise di Parigi, a Fresnes nel 1954-1955: verdetto, sette anni di reclusione. È evidente lo stato d’animo di sconforto dell’Artista: è possibile ancora programmare il futuro? Sì, lei lo fa, ma limitatamente alle sue condizioni di prigioniera. Albertine parla a se stessa: l’eternità l’aspetta, l’attendono il sonno tranquillo di chi non osa più interrogarsi sul significato del tempo e il lasciarsi abbandonare lontano dai pensieri. Alterna momenti in cui ribadisce il suo voler essere corpo, a momenti in cui sottolinea il suo voler essere anima; avvicenda momenti di lucidità a momenti di terrore per il futuro che l’attende, che si presenta più incerto che mai. Al tema del riposare, del dormire (Morire, dormire. Dormire, forse sognare, direbbe Amleto), del sonno, del non aver più desiderio di lottare (del lasciarsi andare insomma), del rifiuto della mente, del cervello, del pensiero si alterna quello dell’acqua: l’acqua, di cui Albertine ha perso il ricordo, come elemento di vita che ancora cattura e chiama la poetessa a sé. È fredda l’acqua, sì, ma anche qui Albertine esprime il desiderio di lasciarsi andare in preda all’oscillare dell’elemento acquatico che la farà dondolare di roccia in roccia, come su un’altalena (qui emerge il suo bisogno di corporeità). L’acqua non solo rappresenta quell’elemento materno che nella vita della poetessa è mancato, ma anche fonte di vita, mezzo di purificazione, centro di rigenerazione. Che sia il richiamo della vita, che si oppone alla notte, alle tenebre e che ancora e nonostante tutto la seduce? “Caratteristica saliente dalla scrittura di Albertine Sarrazin è la predilezione per le assonanze, le allitterazioni, il divertito e divertente gioco di parole (…) (Aldo Giungi, prefazione a La via traversa, La Tartaruga edizioni, 2004, p. 15)”: Mécanique/actes oppure Que promettaient mon corps et mes mains et mes actes.

Fausta Genziana Le Piane©