COME UNA SCIARPA TROPPO LUNGA

Per me poesia è qualcosa da dire
di molto confuso e parziale
che da tempo circola fuori e dentro.
A un certo punto mi trovo
come con una sciarpa troppo lunga
che stringe il collo
si aggancia al tacco dello stivaletto.
Mi chino e mi do da fare
per tirarla via prima che mi costringa
a camminare con una gamba sola
Quando una poesia è scritta c’è.

Prima ronzava invisibile
formicolava nella testa e nello stomaco,
in ogni caso una poesia
me la porto sul tram
le faccio vedere come tutto si muove
che c’è il sole e arriva il caldo
e le assicuro che anche lei arriverà
– parziale e precisa –
anche se rimando sempre l’ora
e preferisco lavarmi i capelli
fare qualcosa di più vago, disperdermi,
fare qualcosa dove lei ancora non c’è
ma potrebbe benissimo esserci.

Aprile 1977

Tratta da: Piera Oppezzo, Una lucida disperazione, Interlinea, Novara 2016, p. 115

Nata a Torino nel 1934 in una famiglia di modesta estrazione sociale (il padre faceva il cameriere e la madre casalinga) per aiutare la famiglia cominciò a lavorare da ragazzina prima come sarta, poi come commessa alla Standa, dattilografa e infine collaboratrice editoriale (correttrice di bozze per Einaudi, Guanda, Feltrinelli, Rai, SE). La sua fu una formazione completamente da autodidatta, quasi clandestina. In un’intervista nel 1989 affermò: «a suo tempo decisi che l’atto di scrivere è l’atto principale che ritengo di dover compiere» (Op. cit., p. 7).  pubblica le sue prime poesie nel febbraio del 1961 sulla rivista «La nostra Rai» e successivamente ne pubblica altre su «La Fiera Letteraria» di Vincenzo Cardarelli. Scrive a proposito di questa prima fase della sua poesia Luciano Martinengo: «Le poesie degli anni cinquanta e dei primi anni sessanta, pur testimoniando il passaggio da una poesia di sentimento a una scrittura di ricerca, svelano una tenerezza che la pudica e severa Piera degli anni successivi non ha più lasciato scorgere. Sebbene situate in un mondo poetico ormai lontano, conservano un’incantevole freschezza di echi pascoliani e aperture che richiamano inconsapevolmente Umberto Saba, Sandro Penna e persino Alda Merini» (Op. cit., p. 8). La svolta fu la pubblicazione presso la prestigiosa collana di poesia Einaudi (la “Collana bianca”) della raccolta L’uomo qui presente nel 1966. Fu l’inizio di una fase più matura, a cui corrispose anche la scelta di trasferirsi a Milano, città dove visse fino alla fine dei suoi giorni. Fu qui che la poetessa allargò i suoi orizzonti ai temi politici e al femminismo. La raccolta Sì a una reale interruzione uscita nel ’67, sembra anticipare i temi e il linguaggio del movimento studentesco del ’68. Anche se Piera condivise le illusioni e le speranze di una intensa stagione politica, la sua poesia non fu mai al servizio di una causa. Al contrario, fu sempre fedele a una dimensione esistenziale dominata dall’angoscia, mentre le sue poesie si facevano sempre più astratte, essenziali e scarne, raccolte attorno al nocciolo duro di un malessere che non trova alcuna consolazione né rimedio: «Disperarsi ogni giorno / è ripetere l’atto meticoloso di un vizio / mentre considerare l’inquietudine / alta qualità biologica / è concedersi una felice riserva attiva.» scriveva in Riserva attiva. A metà degli anni Settanta organizzò con altre donne (tra le quali Nicoletta Gasperini, Raffaella Finzi, Ileana Faidutti) il collettivo “Pentole e Fornelli” che portò per l’Italia uno spettacolo di canzoni e testi poetici che esordisce a Milano al Parco Lambro per il Festival di “Re Nudo” nel 1975. Con gli Anni di piombo e il conseguente crollo delle illusioni e delle speranze di un cambiamento politico Piera si ritirò nella dimensione privata della scrittura. A questo periodo appartiene anche la poesia in questione, nella quale l’autrice mette in gioco questioni meta-poetiche sullo sfondo di scene di vita quotidiana del tutto estranee a una idea di poesia celebrativa o retorica. Al contrario, la creazione poetica è paragonata al fastidio provocato da una sciarpa troppo lunga che si impiglia a un tacco. Un accostamento assolutamente originale e sorprendente che descrive in modo mirabile la scrittura poetica nel mondo contemporaneo: un “qualcosa da dire / di molto confuso e parziale” che viene alla luce in un momento inaspettato (come ad esempio il tram nel quale l’autrice dichiara di “portarsi la poesia”) sotto forma di singolare “formicolio nella testa e nello stomaco”. Come se il mistero della creazione e la banalità della vita quotidiana fossero i due poli opposti che si contendono l’io lirico, tirandolo ognuno verso la propria direzione.

Sono poche le voci che hanno saputo offrire una testimonianza di quegli anni e di quella particolare stagione senza compromessi, senza cedere alla tentazione dei rimpianti o delle auto-celebrazioni. Una testimonianza quella di Piera Oppezzo lucida (non a caso il titolo della sua recente raccolta, Una lucida disperazione). Scrive a proposito Giovanna Rosadini «la fiducia nello strumento del linguaggio, che è una costante della poesia e letteratura femminile emergente del Novecento (..) si esprime attraverso il rigore e la precisione dell’enunciato poetico. Caratteristica fondamentale, per stessa ammissione dell’autrice, della sua poesia è “l’espressione basata sui concetti e non sui sentimenti”» (da: La voce ritrovata di Piera Oppezzo, in: P.O., Esercizi d’addio, Internopoesia, Latiano 2021). Al di là della breve parentesi dell’impegno pubblico intorno alla metà degli anni ’70, la sua fu una vita discreta interamente dedicata alla scrittura, che si chiuse nel 2009, nell’eremo di Miazzina, sul Lago Maggiore.

La società contemporanea si è lasciata da tempo alle spalle quella voglia di cambiare, sperimentare, rinnovare così forte nel decennio posteriore al ’68. Probabilmente la sua rigorosa e lucida fedeltà al linguaggio poetico fu, al tempo stesso, la sua condanna e la sua salvezza. Forse anche per questo è importante (ri)leggere oggi le poesie di Piera Oppezzo, in quanto testimonianza delle speranze, delle istanze e delle inquietudini di una intera generazione.