Vorrei essere un punto in un quadro di Mirò

appena distinguibile da alti punti,
certo, ma disposto in modo del tutto unico.
E dal mio oscuro centro

contemplerei la bellezza dell’orizzonte
e mi chiederei se valga la pena di
rotolare verso la striscia color limone,

posata centralmente, e di spingere le mie curve
contro il suo bordo, per attrarre su di me
un po’ d’attenzione.

Ma sto bene dove sono.
Non capirò mai del tutto quello che avviene
intorno a me, ma è proprio questo il bello.

Il fatto che non sono un cerchio perfetto
mi rende più interessante a questo mondo.
La gente mi guarderà sempre

e anche i più insensibili si emozioneranno.
Eccomi qui, sul punto di animarmi,
un sogno, una danza, una costruzione fantastica,

l’avventura di un bimbo.
E niente in questo cielo fulvo
può avvicinarsi troppo, o andarsene troppo lontano.

I Would Like to be a Dot in a Painting by Miró

Barely distinguishable from other dots,
it’s true, but quite uniquely placed.
And from my dark centre

I’d survey the beauty of the linescape
and wonder — would it be worthwhile
to roll myself towards the lemon stripe,

Centrally poised, and push my curves
against its edge, to give myself
a little attention?

But it’s fine where I am.
I’ll never make out what’s going on
around me, and that’s the joy of it.

The fact that I’m not a perfect circle
makes me more interesting in this world.
People will stare forever —

Even the most unemotional get excited.
So here I am, on the edge of animation,
a dream, a dance, a fantastic construction,

A child’s adventure.
And nothing in this tawny sky
can get too close, or move too far away.

 

Tratta da: L’India dell’anima. Antologia di poesia femminile indiana contemporanea in lingua inglese, a cura di Andrea Sirotti, Casa Editrice Le Lettere, Firenze 2000, pp. 92-95; originale tratto da: The Country at My Shoulder (1993).

Moniza Alvi nasce a Lahore, in Pakistan, nel 1954 da padre pakistano e madre inglese. Si trasferisce in Inghilterra poco dopo la sua nascita, a Hatfield, un piccolo centro a nord di Londra dove è cresciuta (non ha mai fatto in ritorno in Pakistan prima di avere pubblicato le sue prime raccolte di poesia). Ha studiato all’università di York e Londra e lavorato come insegnante liceale per alcuni anni. Nel 1991 ha pubblicato la raccolta di versi Peacock Luggage, il suo debutto, a cui ha fatto seguito due anni dopo The Country at My Shoulder, silloge selezionata tra i finalisti del T. S. Eliot Prize e del Whitbread Poetry Award, e grazie alla quale è stata selezionata per la Poetry Society’s New Generation Poets promotion. Da questa silloge è stata tratta la menzionata poesia, giustamente celebre, spesso ripresa in blog e antologie.

Lo spunto ecfrastico (l’ecfrasi è il genere di poesia che descrive un oggetto artistico) rappresenta un interessante punto di partenza che introduce un sottile paradosso: dal momento che Joan Mirò è un pittore notoriamente astratto già l’intenzione di descrivere un suo quadro presume un atto contraddittorio e arbitrario, che forse vuole rappresentare la contraddizione della poesia stessa ai giorni nostri: una galassia che ruota intorno a un centro inesistente (o se preferite una nebulosa formata da materiali di scarto di fenomeni cosmici). Ma già dal primo verso si passa al centro tematico del componimento: l’identità del singolo individuo in un mondo in cui tutto ormai appare interconnesso (a questo sembrano accennare i due ultimi versi “E niente in questo cielo fulvo / può avvicinarsi troppo, o andarsene troppo lontano”). La difficoltà nel “leggere” un quadro di Mirò è la medesima che ognuno di noi prova ogni giorno di fronte al mondo che lo circonda. “Non capirò mai del tutto quello che avviene / intorno a me. Ma proprio questo è il bello” dichiara la poetessa. Questo senso di “spaesamento”, forse legato anche alla condizione di poetessa “meticcia” anglo-pakistana (anche se, a differenza di Arundhathi Subramaniam, Moniza Alvi, pur essendo inserita nella medesima antologia di poesia femminile indiana contemporanea L’India dell’anima, è una poetessa inglese di origini pakistane che con la terra di origine del padre ha avuto veramente poco a che spartire oltre al cognome), è in realtà comune a tutti gli uomini e le donne che abitano in questo mondo globalizzato. A proposito della Subramaniam, il curatore Andrea Sirotti parlava dello “struggimento per una casa, santuario, habitat, località, comunità, pur nella consapevolezza che per l’appartenenza non possano esserci facili ricette”. La Alvi prende le mosse dalla medesima idea, ma la plasma poi in un modo diverso: quello di un punto in un quadro astratto, un singolo elemento di un disegno indecifrabile, ma pieno di energie vitali, a cui nemmeno l’imperfetta lingua del poeta è in grado di dare una forma compiuta e che per questo rimane un affascinante enigma. Al pari di questa poesia, che allude a qualcosa di non detto e forse neanche nominabile. Proprio per questo non perde il suo fascino tutte le volte che la (ri)leggiamo.