Una specie di canto

Attenda il serpe sotto
la gramigna
e la scrittura
sia di parole, lente e rapide, affilate
a colpire, quiete ad attendere,
insonni –

a conciliare con metafore
le persone e le pietre.
Componi (Niente idee
se non nelle cose) Inventa!
Sassifraga è il mio fiore, che spacca
le rocce

A sort of a song

let the snake wait under
his weed
and the writing
be of words, slow and quick, sharp
to strike, quiet to wait,
sleepless.

– through metaphor to reconcile
the people and the stones.
Compose (No ideas
but in things) Invent!
Saxifrage is my flower that splits
the rocks.

William Carlos Williams, Poesie, Einaudi, Torino 1961, pp. 194-195, traduzione di Cristina Campo

 

Il componimento in questione, che chiama in causa questioni meta-poetiche, racchiude (in particolare la frase “No ideas / but in things”) la poetica di William Carlos Williams, una delle figure di primo piano della poesia nordamericana del novecento. Era nato nel 1883 a Rutherford, una cittadina del New Jersey, dove morì nel 1963 e dove visse per quasi tutta la sua lunga vita. A casa si parlava inglese e spagnolo, sua madre era portoricana (ma di origini francesi) e suo padre, inglese di origine, si era trasferito nella Repubblica Domenicana all’età di cinque anni. In sostanza quella di William Carlos Williams era una famiglia di immigrati ma dai vasti interessi culturali (la madre era pittrice e amante dell’opera). Nel 1902 si iscrisse alla facoltà di medicina dell’Università della Pennsylvania, dove conobbe Ezra Pound, col quale condivise la passione per la poesia e la ricerca di forme di espressione poetica più moderne (comune fu la scelta di rompere con la tradizione tardo-romantica). Esercitò per tutta la vita la professione di pediatra, e parallelamente coltivò i suoi interessi letterari. Insieme all’amico, che lo introdusse negli ambienti letterari (Pound, a differenza di William Carlos Williams, aveva fatto studi umanistici), fu tra i fondatori del movimento dell’imagismo (alcune sue poesie entrarono nell’antologia Des imagistes,  uscita a cura di Ezra Pound nel 1914, che viene considerata una sorta di manifesto del gruppo) e anche se la sua prima raccolta Poems risale al 1909, in essa sono già visibili quei caratteri che pochi anni dopo saranno fatti propri dall’imagismo: la scelta di un linguaggio semplice, più vicino al parlato e la maggiore prossimità al mondo reale e concreto anche nella scelta dei temi e delle immagini. Un’altra caratteristica che accomuna molti poeti imagisti è la preferenza data al verso libero. William, ispirandosi a Walt Whitman, di cui si considerò un continuatore (almeno sotto il punto di vista della forma), chiamò la sua prosodia “piede variabile”. «Il suo metro è un’unità ritmica non controllata da schemi metrici fissi, ma da pattern determinati dal suono delle parole» – scrive a proposito Antonella Francini (Antologia della poesia americana, Roma 2004, p. 313). A partire dal 1915 frequenta il gruppo di letterati e artisti fondato dal poeta, drammaturgo, editore Alfred Kreymborg “The others” di cui faceva parte anche Wallace Stevens, Man Ray, Marianne Moore e Marcelle Duchamp, nel quale venivano assimilate le nuove tendenze delle avanguardie europee. Probabilmente fu proprio grazie a questi nuovi stimoli se nella raccolta del 1917 All Que Quiere! William Carlos Williams dimostrò di essere finalmente approdato a un proprio, originale, linguaggio poetico.

Scrive Barbara Lanati nella Introduzione a Poesie (Newton Compton, Roma 1979, p. XXI) «Costretto a confrontarsi, come d’altra parte facevano gli altri, con la bancarotta economica e ideologica del primo 900, cerca di evitare l’ovvio: cioè la riformulazione, nell’ambito della poesia, della “fuga”, o dentro la “letteratura” (secondo l’esempio di Pound, Eliot e dei Fugitives) o dentro immagini di nuova “materialità”, ad esempio quella della “città” (New York) assunta a nuova metafora “positiva” (..). Williams vuole liquidare miti, mitologie, linguaggi mutuati e non, ricominciando sempre da capo; propone un io lirico che si riconosce nello squallore delle città, nel banale, nella bipolarità della dimensione naturale (i fiori cioè, ma anche le radici e il fango), nella depressione, vi si compromette fino in fondo nella imagery e nel linguaggio».  «La lettura in profondità del mondo ne rivela gli scompensi qualitativi e denuncia – come nell’ipotesi iperrealista – l’assenza di una linea di separazione tra “sogno” e realtà: non perché il sogno (la poesia) abbia sostituito il reale, ma perché il reale ha “invaso” anche il sogno, cosicché la dimensione onirica non si configura come dimensione alternativa al reale, ma come registrazione deformata dei dati del reale. (..) Lo scrittore registra la dissoluzione del proprio io lirico nelle cose» conclude Barbara Lanati (op. cit., p. XXIV).

Per essere pienamente apprezzata, la poesia di William Carlos Williams dovrebbe essere letta in originale. Le traduzioni non rendono quel ritmo pulsante nel quale riecheggia tutto il frastuono e il fervore della vita di una metropoli moderna. In poche parole quella che il poeta cercava all’interno della lingua inglese era una originale prosodia “americana”, al pari dei musicisti jazz che proprio i quegli stessi anni stavano creando un loro linguaggio musicale. William Carlos Williams trovò la sua lingua nella realtà delle cose, nella natura e nelle persone intorno a lui (e che doveva conoscere bene, avendo vissuto per tutta la vita nello stesso luogo). Per questo molti critici hanno scritto che la sua poesia “si dissolve nella prosa della realtà”. Egli “raffigura” (la madre gli aveva trasmesso la passione per la pittura e lui stesso aveva fatto qualche esperimento in questo campo) scomponendo e ricomponendo la visione della realtà secondo i principi del cubismo (agli ultimi anni della sua vita risale Pictures from Brueghel and Other Poems, una raccolta di poesie nella quale l’autore commenta alcuni quadri del pittore fiammingo).